La Stampa, 3 maggio 2024
Perché gli algoritm non riducono il lavoro
È stata la prima Festa del Lavoro nell’era dell’intelligenza artificiale, o almeno da quando abbiamo preso contezza delle potenzialità rivoluzionarie di questa tecnologia che, secondo alcune autorevoli previsioni, presto farà scomparire del tutto il lavoro umano e quindi anche la relativa festa. Vale la pena di ricordare che sono 100 anni che i robot dovrebbero rubarci il lavoro. E non sono di più, gli anni, solo perché la parola robot venne inventata – per indicare un automa umanoide – per uno spettacolo teatrale del 1920. Erano gli anni difficili dopo la prima guerra mondiale, e negli Stati Uniti, che pure la guerra l’avevano vinta, i giornali avvertivano che l’era dei robot era alle porte e che gli uomini sarebbero diventati schiavi delle macchine. Non era solo un fatto di automazione, ma proprio di tecnologia: le prime automobili stavano prendendo il posto delle carrozze con i cavalli e sul New York Times venne pubblicato uno struggente elogio dell’asino, «storico compagno dell’essere umano e portatore di pesi in tutte le epoche precedenti». Titolo: “Il fedele asinello sta sparendo”.Qualche anno dopo, quando la crisi del’29 fece effettivamente schizzare la disoccupazione, l’economista John Maynard Keynes diede sostanza teorica alla paura inventando l’espressione “disoccupazione tecnologica”. Da allora ogni progresso della tecnologia è stato puntualmente accompagnato da profezie sulla “fine del lavoro”. A rileggerle oggi, certe profezie, più che della fine del lavoro sembrano però parlare della fine di certi lavori (puntualmente sostituiti da altri mestieri che prima erano impensabili: come l’elettricista prima dell’elettricità o il pilota d’aereo prima dei fratelli Wright). Le macchine fin qui non hanno divorato gli esseri umani, come alcuni temevano. E sfido qualcuno a pensare che un secolo fa le condizioni dei lavoratori fossero davvero migliori di adesso. L’età dell’oro del lavoro, se mai è esistita, non è alle nostre spalle.La penultima rivoluzione è stata quella digitale, in pratica la diffusione di personal computer, smartphone e web. Qui la svolta con il passato è stata netta. Alcuni mestieri sono scomparsi, ma altri ne sono nati e la grandissima parte si fa in maniera diversa: collegati alla rete. Questo non significa che va tutto benissimo, anzi: c’è un tema enorme di salari, bassi, e di precarietà, diffusa, ma il lavoro non è affatto finito. Si è però impoverito, questo sì, e di questo dovremmo occuparci, di capire perché e mettere in campo dei correttivi.In questo scenario arriva l’intelligenza artificiale generativa di Chat GPT e Gemini a cambiare tutto ancora una volta. Al solito girano previsioni foschissime sulla percentuale di lavori che saranno stravolti (se volete un lavoro sicuro fate l’idraulico, ha detto il padre delle reti neurali Geoff Hinton). Secondo Elon Musk sarà il lavoro umano a scomparire una volta per tutte: presto, ha detto, saranno solo le macchine a lavorare mentre noi percepiremo un reddito di cittadinanza universale; oppure alcuni, è sempre Musk a dirlo, potrebbero comprarsi un’auto a guida autonoma e farle fare il robotaxi mentre se ne stanno sdraiati sul divano di casa (lo so sembra, fantascienza, ma l’8 agosto è stato fissato il lancio del servizio della Tesla…).A queste previsioni si può opporre un ottimismo di maniera, dire per esempio: sono cent’anni che i robot dovrebbero rubarci il lavoro e non è successo. Oppure si può provare a fare una analisi più profonda dell’impatto dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite, sui mestieri. E scoprire che questa volta potrebbe esserci “il riscatto della classe media”. Lo ha spiegato in una ricerca pubblicata a febbraio un grande economista del MIT di Boston, David Autor. L’intelligenza artificiale generativa, sostiene Autor, rendendo facilissimo generare testi, immagini e video, invece di accelerare l’automazione e la sostituzione degli esseri umani con i software, potrebbe aumentare le competenze di gran parte dei lavoratori e quindi rimetterli al centro della scena e con stipendi più alti. Certe mansioni, che oggi sono riservate ai più bravi, potrebbero essere estese a tutti o quasi, perché tutti o quasi, usando bene gli strumenti dell’intelligenza artificiale, possono diventare più bravi. E più pagati.Insomma, al contrario di quello che è accaduto con il web e i social, che hanno escluso chi ne sapeva di meno e hanno fatto retrocedere socialmente buona parte della classe media creando un plotone di persone pronte a fare i lavoretti della cosiddetta “gig economy” per sopravvivere (tipo i fattorini o gli autisti di Uber), l’intelligenza artificiale potrebbe rivelarsi uno strumento di inclusione sociale. Potrebbe, ma vale la pena di provarci. —