10 aprile 2024
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Biografia di Enrico Deaglio
Enrico Deaglio, nato a Torino l’11 aprile 1947 (77 anni). Giornalista. Saggista. Conduttore televisivo. «Il giornalismo provoca in genere disastri, come è ovvio che sia» • «La madre, una bella figura imperiosa sposata a un chimico di Torino, fu preside di ferro durante lo sconquasso del Sessantotto. Intanto Enrico, al terzo anno di Medicina, capelli lunghi, chitarra, Che Guevara, una Harley-Davidson con il cambio a mano, si dava da fare per occupare le Molinette, feudo e simbolo del baronato universitario. Rigida nei costumi ma di indole assai liberale, la madre professoressa lo lasciava fare» (Simonetta Fiori). «La mamma di Enrico Deaglio […] si confidava coi professori raccontando la sua disperazione di vivere col diavolo in casa. E non si riferiva solo al figlio, ma anche agli amici del figlio, fra cui Sofri che era sempre a casa sua, letteralmente compagni di merenda, svuotando il suo frigo mentre complottavano la rivoluzione» (Sandra Giovanna Giacomazzi). «“Noi siamo fatti così”. Ascoltando lui e i suoi compagni di Lotta continua, capiterà di sentirlo ripetere. […] “Eravamo l’avanguardia del movimento: anarchici, luxemburghiani, estremisti”, […] sorride Deaglio. […] “Se c’è una colpa, da parte della nostra generazione, è quella di aver dato un marchio di terrore, di violenza, di feroce cattiveria alla volontà di riscatto diffusa negli anni Settanta. Parlo del terrorismo e della stagione di piombo, da cui discese anche il disimpegno dei deleteri anni Ottanta”. […] I ricordi di Enrico arrivano in Patagonia, davanti alla Terra del Fuoco, e il racconto assume cadenze felliniane. Un’estate con Giulia, la sua compagna, una spiaggia sul canale di Beagle, una barchetta che s’avanza lentamente con sopra un omino che si sbraccia. “Giulia non capiva che cosa mai volesse questo sconosciuto. Dopo un po’ lo riconobbi: era Adriano Sofri, che ci aveva visti con il binocolo…”. […] “Eravamo una carovana viaggiante al ritmo di un western libertario. Guido Viale traduceva il suo estremismo intellettuale in una bellezza anoressica, un po’ come Peter Fonda in Easy Rider. Adriano Sofri, vocazione pedagogica, nutriva un particolare gusto a vivere radicalmente le situazioni, e il più charmeur di tutti, Mauro Rostagno, aveva grande curiosità nel conoscere il mondo, nel capirlo e nel cercare di rivoltarlo. Per me, ragazzo della buona borghesia, significava anche la scoperta delle fabbriche, un mondo rimasto fino a quel momento a distanza lunare”» (Fiori). «La storia di Lotta continua è l’incredibile e unica possibilità che è stata offerta a migliaia di studenti e operai di vedere e di rendersi conto di cose che non avrebbero mai visto nella loro vita. Cioè uno a Torino poteva fare benissimo lo studente per anni provenendo da una famiglia borghese e non conoscere mai un operaio della Fiat. Poteva non vedere mai un carcere, o le ingiustizie profonde che ci sono in questa società. Ecco, per me e per tanti di noi, Lc è stata una sorta di educazione politico-sentimentale. […] Quando queste centinaia di studenti universitari di Palazzo Campana, ma non solo, andarono per la prima volta ai cancelli della fabbrica, l’incontro fu una cosa clamorosa, indimenticabile. Era come incontrare il Terzo mondo, appena girato l’angolo di casa. La Fiat Mirafiori a quel tempo aveva 50 mila operai, l’età media era intorno ai 25 anni, le condizioni di lavoro erano assolutamente disumane, l’arroganza dei capi era altrettanto scandalosa, il razzismo della città totale. Il fatto stesso che gli operai vedessero arrivare gli studenti, persone che in quanto tali un giorno sarebbero diventate medici, avvocati, ingegneri, li faceva divenire a loro volta assetati di sapere» (a Carlo Chianura). Conseguita nel 1971 la laurea in Medicina, esercitò per qualche tempo all’Ospedale Umberto I di Torino, per poi dedicarsi interamente al giornalismo. «Dice d’avere un’idea letteraria della professione: “Il medico può fare le domande che vuole, nessuno può farle al medico. È una navigazione continua intorno alla vita, alla morte, all’uomo: sempre dalla parte più comoda”. […] Gli anni Settanta gli porteranno la direzione di Lotta Continua, e per una singolare alchimia familiare, mentre lui sedeva sulla poltrona più controcorrente della stampa quotidiana, al fratello Mario, valente economista liberale, toccò dirigere Il Sole 24 Ore, giornale della Confindustria. “Ma Mario era molto più a sinistra di me”, scherza Enrico, che come tutti i minori simula per il suo maggiore un affettuoso complesso d’inferiorità: “In realtà è lui quello bravo della famiglia. Da vero liberale sa che non esiste la mano invisibile che regola il mercato… Il dirigere giornali opposti non ci impediva di consultarci quasi ogni giorno per telefono. E lui fu molto più coraggioso di me nel trattare il matrimonio di Carlo e Diana. Lotta Continua scelse di coprire l’evento con una tradizionalissima cronaca delle nozze regali. Mario dedicò la spalla di prima pagina alla cronaca di un matrimonio sfigatissimo, nel sobborgo più malfamato di Londra, tra l’operaio John Smith e la commessa Jane Smitherson. Nelle ultime due righe si diceva che nello stesso giorno a St. Paul’s Cathedral… Uno humour che la Confindustria non parve apprezzare granché. Noi, invece, ci divertimmo da morire…”» (Fiori). «Quando lavoravo al quotidiano Lotta Continua, mi impressionava il modo pacato, gentile e molto efficace con il quale dirigeva quell’orda di estremisti. Mi capitava di arrivare molto presto al giornale. Superavo i compagni del servizio d’ordine che vigilavano alla porta, salivo la scala e mi trovavo nell’enorme open space della redazione, dove Deaglio era in una situazione piuttosto particolare: un compagno stava steso sopra un tavolo con la maglietta alzata mentre Enrico lo palpeggiava. Ma non era sesso. È che Deaglio è pure medico e prima di iniziare a impostare il quotidiano visitava i compagni, prescriveva accertamenti e medicine. Curava la gestione del quotidiano e pure la salute dei compagni. Gran brava persona!» (Jacopo Fo). «Deaglio […] diresse il quotidiano Lotta Continua dal 1976 alla chiusura, nel 1982. Furono gli anni del riflusso, della fine di Lc come movimento politico, ma anche del grande successo di un giornale che riuscì a descrivere il lato privato e sentimentale di una generazione che sino ad allora aveva creduto soltanto nella politica. L’ultimo numero di Lotta Continua, dedicato alla vittoria dell’Italia ai Mondiali di calcio in Spagna, era intitolato “Rossi, Rossi, Rossi”» (Dino Messina). «I puri e duri del movimento gli contestano la direzione di Reporter, il quotidiano sponsorizzato alla metà degli anni Ottanta da Claudio Martelli. “Che c’è di male? Quando Lotta Continua chiuse, ci tenevamo moltissimo, a fare un altro giornale, un quotidiano d’opinione sul genere di Libération. Non mi nascondevo il rischio di quell’operazione, così decidemmo di dichiarare apertamente chi era lo sponsor del giornale. Se siamo stati usati? Non lo credo affatto. Da parte di Martelli fu un atto di generosità politica di cui continuerò a ringraziarlo”. A Deaglio direttore si deve anche il debutto d’una firma brillante e ignota, Piero Dell’Ora, nom de plume dell’attuale portavoce del governo [articolo dell’agosto 1994 – ndr] Giuliano Ferrara. “Era bravissimo. […] La sua è una psicologia complessa, liquidata talvolta con un eccesso di sbrigatività: agisce in lui un fortissimo senso di morte, una volontà di morire battagliando, d’esser contro tutti. Mi colpiscono molto quegli uomini di sinistra che hanno sposato la causa di Berlusconi. È come se fossero animati contro la Sinistra da un violento risentimento personale che ha radici in una zona profonda, apparentemente inspiegabile. Mi piacerebbe scriverne, ma per scriverne bisognerebbe essere un romanziere”. Le psicologie complesse, l’hanno sempre affascinato, a cominciare da Giorgio Perlasca, una sorta di Schindler padovano che nell’inverno del 1944, a Budapest, salvò dallo sterminio migliaia di ebrei spacciandosi per il console spagnolo. A questo vecchietto coraggioso che era stato un fascista entusiasta ha dedicato […] una bella monografia dal titolo arendtiano La banalità del bene (Feltrinelli): Perlasca è così riemerso dall’inspiegabile silenzio italiano» (Fiori). Era il 1991. «Non so se rendo l’idea dello shock che ebbe il libro di Deaglio su gente come me: ma come, i fascisti non sono tutti cattivi? Non sono tutti marci? Scoprire che le qualità migliori dell’essere umano possono trovarsi anche in un fascista era per noi inconcepibile! Ma come potevamo non credere a quello che aveva scritto il compagno Deaglio? […] Credo che per Deaglio non sia stato facile scrivere questo libro. Ma lui con la sua aria di persona seria e distinta è sempre stato uno fuori dalle regole. […] Il suo libro ha avuto grande successo, ne hanno fatto anche un film. Ma evidentemente pochi hanno realmente capito la potenza rivoluzionaria del suo racconto, uscito due anni prima del film Schindler’s List. Deaglio è riuscito a determinare una spaccatura nelle certezze, a ridisegnare il concetto di umanità, ma pochi riescono a capirlo. Se non fosse così, Deaglio sarebbe diventato ministro della Cultura o della Pubblica istruzione, filosofo di riferimento per i progressisti, e sarebbe già sui libri di storia della filosofia!» (Fo). «Personaggi e storie dimenticate affollano anche i suoi reportage magici scritti per l’amica Elvira Sellerio, Cinque storie quasi vere, cronache reali rese in stile surreale. “Non mi piace la storia ufficiale, così m’intestardisco sui dettagli minimi e apparentemente marginali”. Il mal di Sicilia gli ha fatto scrivere Raccolto rosso, un libro sulla mafia, “naturalmente dedicato a Mauro Rostagno” (Feltrinelli)» (Fiori). «C’è un’altra opera colossale di Deaglio, Patria, la storia d’Italia dal 1967 al 2010, un lavoro pazzesco, nel quale dipinge eventi, cultura, mode con uno stile asciutto e incisivo, mezzo giornalista e mezzo poeta. Un racconto che ti restituisce più nitida la storia degli anni che hai vissuto, colpendoti con il continuo stupore dovuto alla scoperta di particolari fondamentali che ti erano sfuggiti nell’affastellarsi dei giorni. Grande Deaglio!» (Fo). Verso la fine degli anni Ottanta ebbe le sue prime esperienze televisive, dapprima «a Mixer, su Rai Due. Per il programma di Giovanni Minoli […] ha realizzato dei reportage dalla Sicilia e dalla Calabria, “taccuini di viaggio” su piccole e grandi storie di mafia e camorra. Ha raccolto le immagini indimenticabili del maxi-processo che si svolse nell’89 a Reggio Calabria: la tribuna stampa deserta, i giudici a rischio con i loro giubbotti e impermeabili antiproiettili inutili. Pesavano sedici chili, non li indossava nessuno. Per continuare il “racconto della realtà”, […] dopo Gad Lerner e Gianni Riotta, a Milano, Italia» (Fiori). Pochi mesi dopo, alla chiusura di Milano, Italia (giugno 1994), «Maroni ministro dell’Interno gli ha perfino chiesto di lavorare al Viminale, sezione Antimafia, ma lui preferisce declinare l’offerta» (Fiori). Un paio d’anni dopo iniziò l’avventura di Diario (1996-2009). «Nato nel 1996 come supplemento dell’Unità per iniziativa di Deaglio, Luca Formenton e Amato Mattia, dopo poco tempo Diario venne lanciato in edicola come magazine autonomo. Sino al gennaio 2008, quando è stato trasformato in quindicinale anche per le difficoltà economiche, Diario si è imposto come il settimanale che ha rilanciato un genere tanto lodato quanto negletto dai giornalisti di oggi, “l’inchiesta vecchio stile”, oltre che come il magazine più antiberlusconiano d’Italia. Con un’ottima sezione culturale, una redazione piccola e combattiva, Diario settimanale vendeva poco più di diecimila copie, ma alcuni numeri monografici, come quelli dedicati alla memoria dell’Olocausto il 27 gennaio di ogni anno, hanno sfiorato quota centomila. Un picco toccato anche con i numeri di denuncia sulle violenze compiute dalla polizia al G8 di Genova nel luglio 2001 (“un servizio reso alla nazione”, dichiara con orgoglio Deaglio), con la controversa inchiesta sui presunti brogli elettorali alle elezioni del 2006 e con gli appassionati approfondimenti nell’estate delle scalate bancarie. La cicatrice più grossa è rappresentata dalla scomparsa nel 2004 in Iraq del medico e collaboratore della rivista Enzo Baldoni» (Messina). Del 2019 è il saggio La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana (Feltrinelli). «Deaglio è stato un valoroso direttore del quotidiano Lotta Continua e un sodale del terzetto di militanti di Lc condannati in via definitiva per l’assassinio del commissario Calabresi. […] Deaglio studia a fondo il che e il come della “bomba” del 1969, documenta molto bene le sporcaccionerie e i depistaggi che poliziotti e magistrati e uomini politici fecero ad addossare agli anarchici – Pietro Valpreda e Pinelli – una bomba che era spudoratamente di marca neonazista. Per arrivare alla famosa stanza in cui ebbe luogo l’ultimo interrogatorio di Pinelli. […] Le mosse di Pinelli, […] le ha ricostruite dopo un’inchiesta durata quattro anni un magistrato milanese adamantino che sarà in prima linea ai tempi di Tangentopoli, un uomo che votava comunista o forse era addirittura un iscritto al Pci. Quattro anni di analisi di tutto quello che era successo nella stanza, della traiettoria della caduta, dei segni sul corpo di Pinelli. […] L’adamantino D’Ambrosio giungeva alla conclusione che l’unica spiegazione possibile della caduta fosse un malore, un mancamento, uno svenimento. Pur essendo nella materia molto meno autorevole di D’Ambrosio, Deaglio spregia la sentenza del magistrato milanese (il quale è morto e non può difendersi). Lui che la sa lunga (l’impudenza intellettuale di Deaglio – che autoreputa sé e i suoi compagni dei Professionisti del Bene – è pari al suo talento di giornalista e scrittore) è arcisicuro che le cose siano andate diversamente, che non so chi dei poliziotti abbia sferrato colpi di karatè, abbia colpito non sappiamo dove il povero e innocentissimo Pinelli, e beninteso dopo averlo torturato ben bene. Da cui la posizione penalmente e moralmente ambigua del povero Calabresi, di cui ogni volta che Deaglio ne pronuncia il nome è come se si nettasse la bocca. Ne discende pari pari, nella sua ricostruzione di fatti e personaggi, che l’assassinio di Calabresi figurati se poteva essere opera di gente di Lotta continua come asseriscono le sentenze dei tribunali. Ne discende che “il pentito” Leonardo Marino altri non era che un burattino in mano a quegli stessi che nel 1969 volevano addossare la colpa della “bomba” agli anarchici. E comunque ognuno ha il diritto di scrivere i fantaromanzi che vuole» (Giampiero Mughini). Da ultimo, nel novembre 2023, ha pubblicato presso Feltrinelli C’era una volta in Italia. Gli anni Sessanta, «un mattone di 594 pagine ma a suo modo intrigante: […] un’interminabile cavalcata dalla morte di Fausto Coppi il 2 gennaio 1960 ai funerali di Pinelli il 21 dicembre del 1969, una mega-antologia di centinaia di scritti i più vari tratti dalle cronache del decennio fatale che per l’Italia fu quello della modernizzazione e per la Prima Repubblica anche il tempo della perdita dell’innocenza. Un libro più che da leggere da piluccare, utile al ricordo dell’episodio uscito di mente per quelli che c’erano e per quelli che invece, beati loro, ancora non c’erano, utile a farsi un’idea del passato, a scoprirlo grazie a un saggio, a una cronaca esemplare, magari al brano di un romanzo. Va da sé che il tutto è doverosamente “di sinistra”: […] del resto, che colpa ha Enrico Deaglio se una Camilla Cederna di destra allora non c’era?» (Ernesto Galli della Loggia) • Da tempo vive a San Francisco (California, Stati Uniti) con la moglie Cecile Brunazzi, la cui famiglia, italo-americana per parte paterna e franco-irlandese per parte materna, è stata la fonte primaria del suo libro Storia vera e terribile tra Sicilia e America (Sellerio, 2015), sul linciaggio collettivo di cinque siciliani realmente avvenuto nella New Orleans del 1899 • «Enrico Deaglio, che è da sempre il mio medico di fiducia, è anche il mio americanista di fiducia – alla lunga è diventato direttamente americano. Il mio americano di fiducia» (Adriano Sofri) • «Giornalista torinese di grande talento. Ama i dettagli, i piccoli indizi, i particolari. Da quelli parte, ragiona, stringe, passando dal minimo al minore e accompagnandovi per fatti successivi alla questione generale, importante. Sa che un delitto rivive sul tavolo dell’anatomopatologo meglio che sulla scrivania del magistrato competente, tra le stoviglie dell’osteria dov’è sprizzato il sangue più che nella tenenza dei carabinieri. Lui approda allo sbarco in Normandia partendo dall’abete del Québec con cui, non a caso, costruirono il timone di un anfibio qualsiasi; può svelarvi il mistero del Gattopardo scovandolo nella trama della tovaglia che Burt Lancaster piazzò, non a vanvera, sotto l’unico albero del latifondo. Solo un sabaudo raffinato e un veneratore del grande inglese poteva assorbire il metodo minimalista di sir Arthur Conan Doyle e strizzarlo sui valori etici del diritto positivo e del controllo giornalistico di qualità. Come poi un libertario naturale come lui abbia potuto negare se stesso fino a trascurare, dettaglio dopo dettaglio, il corpo grosso dei diritti individuali, questo è un rebus. Solo Sherlock Holmes potrebbe spiegarci come mai l’ex direttore di Lotta Continua e di Reporter, l’ex umanitario del caso Moro, l’ex sciasciano, l’ex antiautoritario che aveva in uggia l’amendolismo della polemica su Nicodemo, l’ex amico dei socialisti e perfino un po’ ex amico dei soldi (già mafiosi?) di Silvio Berlusconi, sia caduto vittima dell’egemonia culturale dei Caselli, dei Davigo, dei Maddalena, dei Di Pietro, dei Rinaldi e, spiace infierire, perfino di un perfido Travaglio» (Pietrangelo Buttafuoco).