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 2024  aprile 15 Lunedì calendario

Biografia di Antony Blinken (Antony John Blinken)

Antony Blinken (Antony John Blinken), nato a Yonkers (New York, Stati Uniti) il 16 aprile 1962 (62 anni). Diplomatico. Avvocato. Politico. Attualmente, segretario di Stato statunitense (dal 26 gennaio 2021). Già vicesegretario di Stato (2015-2017), viceconsigliere per la Sicurezza nazionale (2013-2015) e consigliere per la Sicurezza nazionale del vicepresidente statunitense (2009-2013). «Ci piaccia o no, il mondo non si mette in ordine da solo» • «La prima famiglia che ha segnato la vita dell’attuale segretario di Stato è quella che risale a Meir Blinken, uno scrittore yiddish ucraino che a 25 anni fu tra gli oltre centomila ebrei dell’Europa dell’Est che nel 1904 si mossero in massa verso New York per costruire una nuova vita. La diplomazia scorreva già nelle vene della dinastia, insieme alla scrittura, alla politica e alle capacità imprenditoriali. Suo nipote Donald, il padre di Antony (non Anthony con la “h”, come sarebbe più consueto negli Usa, perché il nome è ispirato a Antony and Cleopatra di Shakespeare), era un uomo d’affari di successo e un sostenitore dei democratici, premiato dall’allora presidente Clinton con un posto da ambasciatore degli Usa in Ungheria. Non mancava, in famiglia, neppure la sensibilità artistica: Donald Blinken fu tra l’altro un filantropo che sostenne la carriera di Mark Rothko e fondò e guidò la fondazione a lui dedicata. La seconda famiglia è quella di sua madre, Judith Frehm, discendente di ebrei ungheresi e con altri legami con il mondo diplomatico: uno degli zii di Blinken dal lato materno è stato ambasciatore in Belgio. E poi c’è la famiglia del patrigno, forse quella che ha lasciato il segno più profondo nell’uomo che guida il dipartimento di Stato. Donald e Judith si separarono, lei lasciò New York con il piccolo Tony e si risposò con un ebreo di origini polacche, Samuel Pisar, andando a vivere a Parigi. Qui il futuro segretario di Stato ha trascorso buona parte dell’infanzia e dell’adolescenza, e a leggere la biografia del padre acquisito non è difficile immaginare l’impronta che ha lasciato su Antony. Il ramo familiare dei Pisar affonda le radici in Polonia ed è stato in gran parte sterminato durante l’Olocausto. Samuel era praticamente l’unico rimasto, dopo essere riuscito a sopravvivere ai campi di Majdanek e Dachau (dove fu inviato a 13 anni) e alle camere a gas di Auschwitz. Rintracciato dopo la guerra da un lontano parente, fu mandato a studiare a Parigi e poi in Australia, dove cominciò una carriera accademica che lo portò fino a ottenere un dottorato a Harvard. Qui cominciò per Pisar una carriera di studioso della Guerra fredda e poi di consigliere politico, prima del presidente americano John F. Kennedy e poi di quello francese Valéry Giscard d’Estaing. Divenne anche avvocato delle star di Hollywood, con clienti come Catherine Deneuve, Jane Fonda, Liz Taylor e Richard Burton. È in questo mondo che si trovò catapultato il piccolo Tony quando la madre conobbe Pisar a New York e lo seguì a Parigi. Non che per Blinken bambino fosse una novità stare in mezzo a gente famosa: nel salotto di casa del padre Donald passavano Rothko, Robert Rauschenberg, Leonard Bernstein e molti altri artisti. Prima che sui libri di scuola, il futuro segretario di Stato ha imparato da Pisar che cosa sia stata la Shoah» (Marco Bardazzi). «Durante le audizioni per la sua conferma al Senato, nel 2021, Blinken ne raccontò la fuga disperata durante una marcia forzata, l’attesa nei boschi fino alla vista di un carro armato americano. Di inglese quel bambino conosceva tre parole, e le usò: “God bless America”. Il soldato “lo sollevò portandolo dentro il tank, dentro la libertà, dentro l’America”. È da quel racconto, spiegò, che si è formata la sua idea del ruolo degli Stati Uniti nel mondo» (Marilisa Palumbo). A Parigi «Blinken ha frequentato l’École Jeannine Manuel, istituto privato selettivo, immergendosi nell’ambiente cosmopolita e pieno di contaminazioni tra arte, cultura, politica, nell’establishment francese frequentato dalla madre e dal padre adottivo. A 21 anni Antony si divideva tra la chitarra, i concertini con una banda jazz e il cinema. Voleva fare il regista» (Giuseppe Sarcina). «Tutti a quell’età vogliono fare il regista, ha detto in seguito suo padre, Donald Blinken, […] ma l’ispirazione artistica è rimasta, e Tony a un certo punto voleva fare lo scrittore o almeno il giornalista. Fece uno stage a New Republic durante gli anni Ottanta raccontando (criticando, anzi) l’amministrazione Reagan, e secondo i suoi amici è stato lì che ha capito che, più che raccontarla, la politica, avrebbe voluto farla» (Paola Peduzzi). «Blinken tornò a vivere in America alla fine dell’adolescenza, collezionando una laurea a Harvard (per realizzare la tesi andò a intervistare Kissinger) e un dottorato in Legge alla Law School della Colombia University. Qui divenne lo studente prediletto del professor Richard Gardner, rientrato negli Usa dopo essere stato l’ambasciatore in Italia negli anni di piombo e del sequestro Moro. […] Il decollo della carriera di Blinken risale agli anni Novanta dell’amministrazione Clinton, vissuti in buona parte nel Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, dove il team di esperti di politica estera democratici si rese conto che era un fuoriclasse. Lo capì soprattutto il senatore Joe Biden, che, appena si concluse la presidenza di Clinton e si aprì quella di George W. Bush, portò Blinken in Senato a guidare il suo staff di presidente della commissione Esteri. […] Fu in buona parte Blinken a spingere Biden a sostenere la decisione di Bush di invadere l’Iraq. Una scelta di politica estera che l’attuale presidente ha dovuto difendere e spiegare più volte negli anni scorsi e che gli ha provocato non pochi problemi agli occhi del mondo dei democratici. E c’era l’impronta di Blinken anche su un piano, assai controverso, che Biden ha proposto per anni e che è stato rigettato da quasi tutti, negli Usa e in Medio Oriente: la divisione dell’Iraq in tre regioni autonome divise per etnie e religioni. […] Nel 2008 Antony Blinken seguì Biden nel suo fallito tentativo di conquistare la nomination presidenziale, ma quando Obama lo scelse come vicepresidente anche Blinken si trovò catapultato alla Casa Bianca. Di nuovo nel team della sicurezza nazionale come ai tempi di Clinton, ma stavolta in un ruolo di maggiore spessore e responsabilità. Fu lui a disegnare le strategie per il Medio Oriente, l’Afghanistan e il Pakistan. È stato fra gli strateghi dell’operazione che portò all’uccisione di Osama bin Laden: nella celebre foto che racconta la tensione nella Situation Room della Casa Bianca nei momenti finali del blitz, lo si vede in piedi tra lo staff di civili e militari che circonda Obama, Biden e Hillary Clinton» (Bardazzi). «Si racconta – lo fece Jason Horowitz in un articolo del 2013 sul Washington Post – che Blinken non fosse d’accordo con la decisione di Obama di chiedere l’autorizzazione al Congresso per attaccare la Siria dopo che il rais Bashar al Assad aveva utilizzato armi chimiche contro il suo stesso popolo» (Peduzzi). «La vicenda siriana è rimasta una ferita aperta ancora oggi per Blinken e un punto interrogativo nel suo curriculum, come in quello di Obama. […] Nel 2020, quando guidava la politica estera di Biden durante la campagna elettorale contro Donald Trump, Blinken era tornato a parlare di quegli anni, ammettendo che nel caso della Siria l’amministrazione Obama “aveva fallito: non è stato un fallimento dovuto alla mancanza di volontà o al non aver provato a cambiare le cose, ma non siamo riusciti a prevenire una terrificante perdita di vite umane”. […] Agli anni del lavoro con Obama risalgono altri tre dossier controversi che dividono i sostenitori e i critici di Blinken, oltre a quelli relativi a Siria e Iraq: la risposta alle Primavere arabe, l’intervento militare in Libia e il piano per bloccare il programma nucleare iraniano. La Libia provocò l’unica rottura di cui si ha notizia tra Biden e Blinken: il vicepresidente era contrario all’intervento militare, il consigliere invece spinse Obama ad approvarlo» (Bardazzi). In quanto al programma nucleare iraniano, «l’attuale segretario di Stato è uno dei padri dell’intesa firmata nel 2015 sotto Obama. Non a caso sono state innumerevoli le volte che Blinken ha avvertito che la decisione di Trump di ritirarsi da quell’accordo “senza che vi fosse niente a rimpiazzarlo” rischia di mettere proprio Israele “nella trincea di fuoco se l’Iran davvero riuscisse a sviluppare un ordigno nucleare”» (Roberto Brunelli). «Dopo essere stato fondatore e gestore della WestExec Advisors, fucina di funzionari dell’attuale Amministrazione, ha guidato la macchina della politica estera della campagna di Biden nel 2020 sino a diventare il naturale segretario di Stato. […] Una persona che lo conosce bene per averci lavorato insieme ha raccontato che è assai “difficile spiegare la politica estera a Biden, eppure Blinken è uno che si permette di farlo”. E di sfidarlo. Perché, […] nonostante quell’aspetto da damerino, eleganza, camicia puntualmente bianca e vestito mai con una piega, sa dissentire. Privatamente disse a Biden che non avrebbe dovuto seguire i tempi del ritiro dall’Afghanistan indicati da Trump, salvo poi in pubblico prendersi critiche e fare da scudo; sulla Libia ai tempi dell’amministrazione Obama si schierò con il presidente anziché con il suo boss» (Alberto Simoni). «Blinken è la mente di politica estera dietro Joe Biden e in questi ultimi tempi è anche il suo alter ego e apripista in mezzo alle molteplici crisi che l’amministrazione americana sta provando a gestire. Dall’Ucraina al Medio Oriente, ma con un occhio sempre rivolto anche a Taiwan e alla Cina, per il timore che prima o poi si apra un terzo fronte, forse quello più pericoloso di tutti» (Bardazzi). «Doveva essere un viaggio di 48 ore in Israele e Giordania, è diventato subito una corsa a tappe: undici solo al primo giro, sei giorni. Il segretario di Stato “trottola” Antony Blinken è stato il volto della risposta americana all’attacco di Hamas contro lo Stato ebraico, l’uomo che ha preparato il terreno alla visita di Joe Biden, conclusasi con un discorso impeccabile. […] Nei momenti più complicati – come nella foto della riunione improvvisata (in t-shirt) durante il G20 la notte del missile caduto in Polonia, che avrebbe potuto scatenare un conflitto mondiale – accanto al presidente, a lavorare per lui, ci sono sempre il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e, appunto, Antony Blinken, che descrive la sua relazione con Biden come “la più vicina al rapporto padre-figlio che si possa avere senza essere imparentati”. Atterrando a Tel Aviv quattro giorni dopo le stragi, il segretario di Stato ha voluto sottolineare di parlare come membro del governo americano, “ma anche come ebreo”» (Palumbo). «Blinken […] si è spogliato dell’immagine che lo vedeva, in politica, noto quale veterano funzionario e consigliere dietro le quinte. Per provare a indossare i panni dell’Henry Kissinger di Joe Biden. La sua frenetica attività diplomatica nella crisi mediorientale, per sostenere Israele e allo stesso limitare tragedie umanitarie a Gaza ed evitare escalation regionali del conflitto, rimane una partita aperta. Blinken è tuttavia diventato ben più del competente quanto grigio collaboratore di Biden che i suoi critici avevano finora dipinto. Nelle sue mani, con le crisi di politica estera, potrebbe risiedere il futuro della Casa Bianca di Biden e le sue chance di rielezione. La nuova statura di Blinken, messa già alla prova dalla risposta alla guerra di invasione russa in Ucraina, è stata riconosciuta anche dagli avversari. “Uno sforzo erculeo” ha definito la sua shuttle diplomacy il senatore repubblicano Lindsey Graham, frequente critico dei democratici» (Marco Valsania). «Sull’Ucraina, oltre a essere stato determinante nel tenere insieme gli alleati Nato, dentro l’amministrazione si è opposto all’idea di evitare la consegna di alcuni tipi di armi per non provocare la Russia» (Palumbo). «Per quanto Blinken sia concentrato su Kyiv e Gerusalemme, la sua attenzione e le sue preoccupazioni continuano a rivolgersi anche più a est. Alla Cina, il vero dilemma della politica estera americana dei prossimi anni. Da quando è segretario di Stato, Blinken ha trascorso un’enorme quantità di tempo in Asia, a studiare la situazione, costruire alleanze, cercare di rafforzare i rapporti con l’India e fare tutto il possibile per contenere Pechino. Putin e Hamas sono i nemici del momento, ma il mondo visto da Foggy Bottom continua ad avere Pechino in cima alla lista delle priorità e delle sfide da affrontare» (Bardazzi). «Blinken non ha ambizioni ulteriori: la Casa Bianca non è nei suoi piani, non ora almeno, sin quando c’è il suo padre politico. E poi, al di là delle suggestioni, forse è vero che gli manca qualcosa per saltare dal dipartimento di Stato al foro della politica. O forse ha qualcosa che fa storcere il naso agli americani. Parla francese. Guarda caso, come John Kerry. Non l’hanno mai perdonato per quel gusto esterofilo e per quell’amore verso la patria dei Lumi. Troppo élite, troppo europeo» (Simoni) • Due figli da Evan Ryan (classe 1971), cattolica di ascendenze irlandesi conosciuta alla Casa Bianca ai tempi dell’amministrazione Clinton e sposata nel 2002, con un matrimonio interreligioso concelebrato da un sacerdote cattolico e da un rabbino all’interno della chiesa cattolica della Santissima Trinità a Washington. «Alla cerimonia di nozze in prima fila c’erano i Clinton. Il futuro segretario di Stato durante il ricevimento fece un brindisi di ringraziamento ai 40 milioni di americani che avevano mandato Bill Clinton alla Casa Bianca: senza di loro, disse, non avrebbe avuto occasione di incontrare Evan. La signora Blinken ha lavorato a sua volta nell’amministrazione Obama e oggi è il capo dell’ufficio di gabinetto nella Casa Bianca di Joe Biden» (Bardazzi) • «Chitarrista incallito, […] suona lo strumento appena può nella sua villa da 4,5 milioni di dollari in Virginia» (Simoni). «È un uomo di passioni. Quella per il rock non l’ha mai abbandonata: su Spotify ci sono anche i brani registrati con la sua band, il cui nome è, significativamente, Ablinken. Lui ne va fiero, tanto da pubblicizzare la sua musica su Twitter» (Brunelli). «Gli è rimasta una bella voce, è molto fotogenico» (Peduzzi) • «Un uomo schivo, poco avvezzo ai riflettori, capace di stare un passo indietro e di non fare ombra al presidente. Doti per molti, limiti per altri osservatori» (Simoni). «Anche fisicamente l’opposto del suo predecessore, il sanguigno Mike Pompeo, […] “ha la capacità di dire alle persone in modo morbido cose durissime”, come non mancava di riferire Sandy Berger, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama» (Brunelli). «Completo blu, gesti affabili e sempre concentrato sui dettagli. Neanche una parola è lasciata al caso» (Maurizio Molinari). «Antony Blinken, detto Tony, è tutto quel che ci viene in mente quando diciamo establishment americano di politica estera. […] Non è una cosa brutta: è una bolla, certo, ma vuol dire anche competenza ed esperienza» (Peduzzi). «Un curriculum washingtoniano, una vita nella capitale che però non l’ha mai visto colpito da scandali piccoli o grandi» (Palumbo) • «Il credo di Blinken è quello dell’internazionalismo liberale, difesa dei diritti e disponibilità di usare la forza se necessario. Riporta a Clinton e a Madeleine Albright, le guerre in Jugoslavia e Kosovo» (Simoni). «Poche volte negli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno avuto un segretario di stato cosmopolita e poliglotta come Blinken, con una forte impronta europea, un’educazione nei college dell’Ivy League americana, un network di amici in ogni Paese del globo, una vocazione assoluta per il multilateralismo, un istinto interventista e un senso della tragicità della storia che lo accompagna sempre come ebreo. Il tutto unito a un’ironia di fondo che si esprime nella sua vena artistica, quella che emerge non appena impugna la chitarra e si esibisce con la propria band. […] In un articolo scritto nel 2019 per la Brookings Institution insieme a Robert Kagan, Blinken spiegò la propria dottrina, sostenendo che “una politica estera responsabile richiede una combinazione di diplomazia attiva e deterrenza militare. La forza può essere necessaria in aggiunta a una diplomazia efficace. In Siria giustamente cercammo di evitare un altro Iraq non facendo troppo, ma finimmo per compiere l’errore opposto di fare troppo poco”» (Bardazzi) • «Ecco cosa ho imparato in trent’anni di questo lavoro. In primo luogo, quando l’America non è coinvolta, quando non esercitiamo la nostra leadership, o qualcun altro lo fa in un modo che non favorisce i nostri interessi e valori o non lo fa nessuno e si crea un vuoto che di solito viene riempito da cose negative. Ciò che sento in tutto il mondo ovunque vada è una sete, una fame, un desiderio del nostro coinvolgimento, della nostra leadership. […] In secondo luogo, la prima cosa che il presidente Biden mi ha chiesto di fare è stata di rimboccarci le maniche e fare in modo che tutti al dipartimento di Stato facessero lo stesso, riattivare le nostre alleanze e partnership, ravvivarle, reinventarle in alcuni casi. E sono queste relazioni, queste partnership, che sono così vitali, perché, così come la nostra leadership è essenziale, trovare nuovi modi per cooperare con gli altri è più importante che mai» (ad Andrew Ross Sorkin).