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 2024  aprile 19 Venerdì calendario

Biografia di Sandro Chia (Alessandro Coticchia)

Sandro Chia (Alessandro Coticchia), nato a Firenze il 20 aprile 1946 (78 anni). Pittore. Scultore. Viticultore. «Ritengo il lavoro la maggiore consolazione dai dolori della vita» (ad Alain Elkann) • Nato e cresciuto a Firenze. «“Sono uno degli ultimi a essere stato battezzato nel Battistero, che privilegio!”. […] Cresciuto nella culla dell’arte, ma anche scappato presto dal destino borghese che i genitori sognavano per lui, il più possibile simile a quello del fratello ingegnere» (Franca Porciani). «Scalpita. Si iscrive all’Istituto d’arte, accanto al giardino di Boboli, che frequenta in disaccordo con i genitori, che lo vedono architetto, o almeno geometra, e giudicano quella scuola una fabbrica di disoccupati. “Invece avevo professori e maestri d’arte molto seri e appassionati, tra cui per esempio Mario Luzi come insegnante di lettere”. Va a vivere in un bilocale in piazza Santa Croce, dividendolo con una ragazza americana e il suo compagno cileno. Ed è lì che lo ritroviamo nella notte dell’alluvione del 1966. Quella sera il ventenne Sandro era andato a una festa di americani: “Uscii un po’ brillo e mentre camminavo sul Lungarno mi sembrava che le pietre della strada si muovessero, ‘Dio bono, ma quanto ho bevuto?’, invece ondeggiavano davvero, il fiume stava per straripare. Fu un ritorno al Medioevo, e in un certo senso Firenze, nei giorni seguenti l’alluvione, era bellissima: niente luce elettrica, fango, stivaloni, manoscritti di Dante che galleggiavano nelle pozzanghere, uno spettacolo agghiacciante ma intenso. Fui tra i primi a vedere il Crocefisso di Giotto nel fango, e piansi. Dormivo alla Biblioteca Nazionale in un sacco a pelo, insieme a qualche centinaio di coetanei giunti da tutto il mondo”» (Antonello Piroso). «Ho frequentato prima l’Istituto d’arte e poi le Belle arti. A Firenze l’arte è una consuetudine quotidiana, e io per anni ho pensato che tutto il mondo fosse così. L’Istituto d’arte a Firenze, prima del 1968, era la scuola più formidabile del mondo, piena di vecchi artigiani coltissimi. Mentre si lavorava si parlava di Leopardi, di Marx, di Nietzsche. Era una scuola basata sulla necessità di discutere e di approfondire: le arti non erano slegate tra loro. C’erano anche molte ragazze, e, in quei giardini di una bellezza incredibile, si scopriva l’erotismo. Quando passai all’Accademia delle belle arti, trovai gente più borghese: c’erano soltanto snob che aspettavano l’eredità, non c’erano più gli artigiani di San Frediano, e io mi sentivo tra persone senza cuore. Poi arrivò il ’68 con la sua ondata di caos. Viaggiai in tutta Europa, andai in India e in Turchia». «Comincia a coltivare la passione per i viaggi. Amsterdam, ma prima ancora Parigi per una mostra di Picasso. Al ritorno dall’Olanda, nell’aprile ’68, l’autostoppista Chia viene arrestato al confine francese. Il motivo è surreale: secondo i poliziotti quell’uomo che parlava il francese troppo bene, sia pure con qualche “c” aspirata di troppo, era niente meno che Daniel Cohn-Bendit con documenti italiani contraffatti, intenzionato a entrare in Francia per sobillare gli studenti e le masse. Il suo successivo alloggio furono così le quattro mura di una cella. “Mi sbatterono in prigione per 63 giorni a Lille: ero in cella con un macellaio che aveva ammazzato la moglie, il resto della popolazione carceraria era per lo più algerina. Mi guadagnavo tabacco e cibo extra barattando disegni pornografici che facevo sulla carta igienica del carcere”» (Piroso). «Nel ’71 l’approdo a Roma e l’incontro con Achille Bonito Oliva, che sostiene il nuovo movimento pittorico di cui fa parte anche Chia. Rammenta l’artista: “Achille mi assomigliava nel suo ‘teppismo’ culturale, nell’essere provocatorio, fuori da ogni accademia, napoletano. Non c’era un calcolo da parte sua perché non c’era niente da guadagnare, non c’era un’economia. In Italia il mercato dell’arte esisteva soltanto a livello locale, era atomizzato: a Firenze vendevano Scatizzi, Rapisardi, Adami, a Roma Gianfranco Baruchello, il Duchamp italiano. Non si guardava all’estero: al massimo l’occhio arrivava a Parigi; Londra era un pianeta lontano» (Porciani). «Era il momento dell’arte minimale e concettuale, l’arte povera. Frequentavo un ambiente assai composito: il ladruncolo di Trastevere si mischiava con l’americano, il figlio del ricco con il sottoproletario. La coesione era l’avventura politica e psichedelica, e l’arte era il collante di tutto. All’epoca, l’idea di successo era diversa. Aveva successo una mostra dove venivano cinquanta persone e qualcuno magari scriveva una recensione. Era ritenuto scorretto parlare di denaro. Vendevo un disegno ogni tanto. Ma negli anni Settanta ci si incontrava al bar, da Rosati. Si ricevevano molti inviti, la vita costava pochissimo. Io d’affitto pagavo trecentomila lire al mese, e per allora era moltissimo». Il 16 aprile del 1971 l’inaugurazione della sua prima mostra personale, «L’ombra e il suo doppio», presso la galleria La Salita di Roma. «“Conosci il pittore Sandro Chia?”. Nella Roma della metà degli anni Settanta, quell’appellativo, “pittore”, era quasi un dispregiativo: la pittura era stata catalogata come un vecchio arnese, fuori dal tempo. Giorgio Franchetti, grande e appassionato collezionista libero da condizionamenti, restò immediatamente incuriosito. E volle conoscere quest’omone spavaldo, arrivato dalla Toscana, che si era messo a dipingere grandi tele, grandi come gli insoliti eroi che le popolavano. “Era tutto un mondo fantastico ove si incrociano verità e assurdo, luci e splendori che si contrapponevano all’arte concettuale poverista del mucchietto di carbone, del ciuffo di lana propugnati come suprema idea di forma”: sono i pensieri che Franchetti si era annotato. Di Sandro Chia pittore, e dei suoi compagni d’avventura, tutto il mondo si sarebbe accorto poco dopo, nel 1980, quando alla Biennale di Venezia Achille Bonito Oliva aveva presentato quella squadra di artisti, tutti italianissimi, raccogliendoli sotto il nome di Transavanguardia» (Giuseppe Frangi). «È stato protagonista – con Cucchi, Clemente, Paladino e De Maria – della Transavanguardia, che, al calare degli anni Settanta, comparve, con la guida di Achille Bonito Oliva, come movimento che riportava alla ribalta la pittura, l’immagine, i colori e il cromatismo intenso, dopo anni di Concettualismo: fu l’ultimo movimento italiano a sfondare a livello internazionale, conquistando musei di mezzo mondo, Moma compreso» (Fiorella Minervino). «“Ad un certo punto decisi di andare negli Stati Uniti. Appena arrivato, ebbi la sensazione di aver fatto la cosa giusta: a New York l’artista era visto senza sospetto, senza pregiudizi. Quello era il luogo dove potevo perseguire la mia felicità. Ci sono rimasto vent’anni. […] Quando sono arrivato a New York mi sono accorto che c’era un bisogno primario, non soltanto la curiosità, di vedere quest’arte sperimentale che, dopo tante performance, installazioni e oggetti, tornava al pennello. Questo spiega, forse, il mio successo, perfino esagerato. Quando feci la prima mostra alla galleria newyorkese di Gian Enzo Sperone, che con la sua prima sede a Torino aveva rappresentato negli anni Sessanta la ribalta della pittura internazionale in Italia, i quadri furono venduti tutti nel giro di un’ora. Andy Warhol scrisse sulla sua rivista Interview: ‘Sono andato a vedere la mostra di un giovane artista molto hot (caldo), Sandro Chia; mi è piaciuto: finalmente si rivedono i quadri, si sente l’odore delle vernici. Però bisogna andare lì con il contante, perché non ha un conto corrente’. Con la Transavanguardia la pittura italiana, per la prima volta, ebbe un’attenzione internazionale, anche perché l’America era la ribalta dell’arte a quell’epoca, anche sotto il profilo commerciale. Nonostante quest’improvvisa popolarità, non mi sono sentito un miracolato; mi sembrava dovuta: perché un pittore californiano doveva essere avvantaggiato rispetto a uno come me, cresciuto a Firenze, nella culla dell’arte?”. […] Nel 1983 la mostra al Guggenheim, nel 1984 la consacrazione al Metropolitan Museum. […] E tanto lavoro: pittura, scultura, mosaici, murales» (Porciani). «L’escalation era stata impressionante: nel 1981 il Moma di New York acquisiva dei suoi disegni e le sue opere comparivano in una mostra destinata a segnare una stagione: “A New Spirit in Painting” alla Royal Academy di Londra» (Frangi). «Negli anni Ottanta, New York era più artigianale. Sembrava una città del Terzo mondo, con intere zone che parevano bombardate, il costo della vita era minimo. C’era tanta curiosità, era piena di gallerie, persino il fattorino che ti portava la spesa amava intrattenersi e parlare di pittura. Io avevo affittato un loft a Chelsea. Lì i costi erano ridicoli se comparati a Roma, persino i tassisti facevano resistenza per riportarti in quel quartiere perché era considerato malfamato. Credo che sia stato l’unico caso immobiliare di palazzi in riva al fiume più economici di quelli nel centro città» (Piera Anna Franini). «Chia incontra un ragazzo svedese, Peter Bonnier, erede di una dinastia di editori che aveva pubblicato le opere di August Strindberg: “Peter faceva il gallerista e aveva comprato un mio quadro, Moto perpetuo: un centurione romano che beveva del vino e contemporaneamente orinava un liquido dorato. Mi chiese di andare a casa sua ed essere presente quando lo avrebbe mostrato al padre, così da spiegargli il significato di un’opera non del tutto adatta a essere appesa sopra il divano del salotto. Tuttavia a nulla valse la mia eloquenza: fummo buttati fuori assieme al dipinto. L’episodio cementò la nostra amicizia, tanto che Peter mi invitò per un weekend di caccia al cervo. ‘Allo zoo?’, domandai stupito. ‘No, Upstate NY’, fu la risposta. Arrivammo nottetempo in una campagna innevata, da documentario di Walt Disney, e a mezzogiorno ero l’unico ad aver abbattuto un cervo da trofeo, un maschio adulto con enormi corna. C’è una foto che mi ritrae con il fucile in compagnia di Allen Ginsberg”» (Piroso). «I più grandi musei del mondo gli hanno dedicato personali, dallo Stedelijk di Amsterdam al Metropolitan Museum di New York, la Nationalgalerie di Berlino, il Museo d’Arte moderna di Parigi, i Musei di Düsseldorf, Anversa, Città del Messico» (Franini). «È dagli speculatori che nascono le cosiddette “bolle”, pronte a scoppiare facendo crollare i prezzi quando il mercato sia saturo o comunque non più disponibile ad assorbire altre opere di quel genere. Spesso lo scoppio di tali bolle, in effetti, coincide con la fine della fortuna critica del movimento. […] Un esempio tra tutti, la famosa vendita in blocco che Charles Saatchi decise riguardo alle opere di Sandro Chia in suo possesso: tutto il gruppo delle “tre C” (Cucchi, Chia, Clemente), come venivano chiamati in America i tre italiani che avevano rivoluzionato il sistema, ebbe una tale flessione che solo il terzo, decidendo di stabilirsi in America, riuscì nel tempo a calmierare» (Angela Vettese). «Chia, abbandonato dai collezionisti più importanti, prova a tener duro, ma è poi costretto anche lui a lasciarsi cadere sulla rete di salvataggio italiana, trasformandosi in un signorotto di campagna con la passione della pittura» (Francesco Bonami). «Nel frattempo, Chia aveva deciso di tornare a mettere radici in Toscana. Aveva concluso l’acquisto di una massiccia fortezza del XII secolo sulle colline di Montalcino, Castello Romitorio» (Piroso). «“Comprai il castello, e duecento ettari di terra intorno, nel 1985 con il ricavato della vendita di una grande opera che mi permise di fare anche i lavori di restauro. Era un rudere abitato dalle pecore e un po’ sinistro, luogo di lontani eccidi e di fantasmi (si narra che qui i fiorentini trucidarono i familiari delle truppe francesi corse in aiuto ai senesi); ho cercato di rispettare la sua storia. Anche lo studio, un capannone che non mostro a nessuno, è fuori da qui”, racconta l’artista. […] Dopo vent’anni trascorsi negli Stati Uniti, è tornato a Roma. […] Ma Chia trascorre lunghi periodi anche al Romitorio, dove nel 1987 ha avviato la produzione di vino. Produzione ormai importante. […] Il Brunello del Romitorio piace: quello del 2004 […] si è guadagnato il premio di miglior rosso del mondo all’International Wine Challenge di Londra» (Porciani). «L’artista ha saputo convertirsi, come lui si autodefinisce, in “vinaiolo-artista”: “Produrre vino con passione, accuratezza e spirito creativo può essere considerato come una delle ‘belle arti’. Si tratta di un’arte di trasformazione collegata direttamente alla natura e all’uomo che dalla natura ottiene nutrimento ed ebrezza. Non a caso Dioniso è il dio del vino e dell’arte”. I punti di confluenza tra il vino e l’arte nel caso di Chia inevitabilmente si moltiplicano, in un mutuo scambio di favori. Prendiamo il caso delle etichette: è lui a disegnarle per i vini prodotti da Castello Romitorio. Nobilitano e impreziosiscono le bottiglie, ma diventano anche un buon veicolo per l’arte. […] Poi c’è la cantina interrata ai piedi del Castello. All’interno, le opere di Sandro Chia realizzate a Montalcino si alternano a testimonianze artistiche del millenario passato locale e a materiali provenienti dal paesaggio. […] Non ci sono solamente opere del padrone di casa a Castello Romitorio: ad esempio c’è un’opera firmata da Andy Warhol con il ritratto di un bambino di quattro anni. È Filippo, classe 1983, che dal 2006 ha affiancato il padre nella conduzione del Castello e della produzione di vino» (Frangi). «Il cammino dell’artista, quasi sempre in cresta, appare di una coerenza granitica: la sua pittura è sostanzialmente sempre quella, eppur sempre nuova: il gusto – di più, la gioia – della creazione, dipingendo (o scolpendo, più raramente) in costante dialogo con il passato, con pennellate vorticose e colori spesso accesi» (Edoardo Sassi) • Padre di Filippo, Antonio, Costanza e Teodora, queste ultime avute dall’attuale consorte Marella Caracciolo, figlia del principe Nicola Caracciolo di Castagneto e omonima della zia, che sposò Gianni Agnelli. «Confesso che non mi sento padre: per me sono stati incidenti di percorso. Ma forse non sono stato poi così male, visto che i miei figli non cercano di farmi fuori. […] Me ne sono occupato e li ho fatti divertire. […] Alla fine mi sembrano sereni». «Ho quattro figli ma devo ancora giungere alla pubertà» • «Lei ha doppio passaporto, corretto? “Italiano e americano. Anche tre dei miei quattro figli sono nati in America. Ogni imprenditore dovrebbe vivere qualche anno lì per capire cosa è l’imprenditoria. Via la burocrazia, i tempi sono veloci, domina l’etica del lavoro. E poi hanno una bella Costituzione”» (Franini) • «Mi piacciono le moto come oggetti parcheggiati, e poi mi fanno volare intorno alle colline toscane. Si va nell’aria, senza protezione. Si ha l’impressione di penetrare la materia» • «Definito “un interprete eccellente della contemporaneità”, “uno degli artisti più intelligenti dei nostri tempi”, “il rappresentante di punta della transavanguardia”. A buttare acqua sul fuoco dell’enfasi […] è proprio lui, Sandro Chia: “Trovo impropria la sottomissione a un’etichetta. Poi, se proprio vogliamo trovare una peculiarità, diciamo che, nonostante i viaggi e le deambulazioni, sono un artista italiano”» (Piroso). «Chia, si parva licet, tenta di rifarsi […] a De Chirico, nel cinismo così come nello stile (o negli stili) e in un ostentato cosmopolitismo (Firenze, l’America; l’America, Firenze…). E molto dechirichiano (nel meglio? nel peggio?) Chia lo è soprattutto quando dice: “Le migliori discussioni sull’arte le ho avute con i collezionisti, che sono oggi i veri critici nel senso più profondo. Il collezionista è uno che quando afferma ‘mi piace’ fa seguire un’azione, cioè è pronto a pagare il prezzo del suo giudizio”» (Mario Perazzi) • «L’artista ricorre spesso a una metafora per spiegare chi sia il pittore: “È come un imbuto in cui entra il mondo; necessariamente il tutto passa per una strettoia che è costituita dal suo occhio e dalla sua passione. Quel che ne esce è la visione di un ‘esterno’ reso questa volta ‘eterno’”. Forse per questo i suoi quadri contengono sempre un qualcosa di gioioso: Giovanni Testori aveva notato le folate di “vento cromatico che investono i suoi eroi, li fanno danzare, provocando un’irresistibile carica di eros e di gioia”» (Frangi) • «Chi sono i veri maestri di Franco Chia? “Probabilmente Piero della Francesca e Paolo Uccello, oppure i Primitivi senesi”. La terra, il territorio e l’origine contano molto per un artista? “Contano moltissimo, perché vi affondiamo le nostre radici”. […] “Forse ho un valore, per essere nato a Firenze. Amerigo Vespucci era fiorentino e ha dato il nome all’America: nell’essere fiorentino c’è un sano senso imperialista, perché si porta altrove la propria civiltà”» (Elkann) • «La storia si è esaurita. […] Siamo ai tempi supplementari. […] Un tempo l’arte si rifaceva a un sistema, aveva linguaggi e tecniche chiari e si presupponeva che la gente li capisse, tradizioni che oggi hanno conosciuto uno stravolgimento. Si chiama pittura anche quello che non è: il Grande vetro di Duchamp, per esempio. L’arte ha spostato i propri limiti. […] L’artista è abbandonato a se stesso, non ha più riferimenti, non ci sono più accademie, scuole d’arte, tecniche… Ormai tutti i mondi sono arrivati a un punto di rottura, alla catastrofe» • «Persone che hanno talento e capacità insostituibili non dovrebbero assolutamente morire. […] Non capisco perché non sia stata ancora curata questa malattia terribile chiamata morte. È una malattia come il raffreddore, ma l’aspirina del caso non è ancora stata inventata. Tutta quanta la scienza, tutti gli scienziati, dovrebbero concentrarsi sull’immortalità del corpo. Pensi che si muore ancora come si moriva all’età delle caverne. Solo che oggi è un fatto decisamente più anacronistico».