29 aprile 2024
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Biografia di Lars von Trier (Lars Trier)
Lars von Trier (Lars Trier), nato a Kongens Lyngby (Copenaghen, Danimarca) il 30 aprile 1956 (68 anni). Regista. Uno degli autori più importanti del cinema europeo contemporaneo. «Iperbolico e spericolato. Cinico e amorale. Realista ed espressionista» (Maurizio Di Fazio, Rep 29/4/2016). «Controverso e innovatore, si distingue per i virtuosismi visivi affidati a una narrazione poco consueta e scelte di montaggio singolari» (Treccani). «A volerlo rinchiudere in un genere, forse il kitsch sacrificale è quello che gli si addice di più» (Paola Piacenza, iO Donna 13/5/2023) • Si è definito «un masturbatore dello schermo» • Si è fatto tatuare le lettere F, U, C, K sulle falangi della mano destra • Amante dell’eccesso e della provocazione, e abilissimo promotore di sé stesso, è riuscito per anni ad attirare l’attenzione e a conquistare i titoli dei giornali • Maniaco e ipocondriaco. Ha la fobia delle gallerie. Rifiuta di prendere l’aereo, viaggia solamente in macchine e roulotte. Ha abusato di alcol e vari tipi di droghe e psicoforamaci. Ha sofferto di depressione, fino ad arrivare a contemplare l’idea del suicidio. A un certo punto ha pure attraversato una fase mistica al termine della quale, da ateo che era, decise di convertirsi al cattolicesimo • Fu cacciato con ignominia da un Festival di Cannes per aver elogiato l’operato di Adolf Hitler • Rapporto complicato con le donne. Ha avuto quattro figli da due mogli diverse. Una delle due, l’ha mollata mentre era incinta per mettersi con la baby-sitter. Catherine Deneuve gli scriveva lettere appassionate in cui lo scongiurava di farla lavorare. Charlotte Gainsbourg, che con lui girò tre film e si guadagnò la Palma d’Oro, ha raccontato che «lavorare con Lars è stata una scelta sentimentale». Un’altra donna, la cantante Björk, lo ha invece accusato di essere un volgare misogino e un manipolatore. Lui non si è scomposto più di tanto, e ha risposto: «Se sei capace di fare film emozionanti, per forza di cose devi essere un manipolatore».
Titoli di testa «Se sapessi spiegare me stesso con le parole, non avrei bisogno di fare film».
Vita I genitori, Ulf e Inger Tiers, erano hippie convinti: nudisti, atei, comunisti • Solo alla morte del marito, la madre gli rivela che il suo vero padre è Fritz Michael Hartmann, membro di una ricca famiglia di musicisti, scelto per tramandare al bimbo i cromosomi dell’arte • Lars cresce libero. Privo di regole. In un ambiente ricco di sollecitazioni. Per contrasto, nasce forte in lui un desiderio di disciplina • Tutti inizia con il cinema italiano: Fellini, Rossellini, Antonioni, Pasolini, Leone, Morricone. «Quando ho iniziato a guardare i film si era nell’età dell’oro, subito dopo il neorealismo, Fellini era all’apice, non c’era un altro Paese con questa ricchezza». A tredici anni, grazie a uno zio, comincia a frequentare gli studi televisivi. Recita come attore nello sceneggiato L’estate segreta di Thomas Winding. La madre gli regala una cinepresa 8mm e comincia a girare piccoli film • Nel 1976 pubblica il suo primo, provocatorio, articolo sull’arte. Capisce che vuole diventare un personaggio. È allora, in omaggio al regista Josef von Sternberg (1894-1969), che aggiunge al suo cognome la particella “von” • Lars si s’innamora del cinema e ci si butta a capofitto. «Appena conseguito il diploma si iscrisse all’università di Copenaghen. Nel 1982 si diplomò alla Scuola cinematografica danese con Immagini di una liberazione, un mediometraggio che ricostruisce un episodio del maggio 1945 dal punto di vista dei nazisti sconfitti, con uno stile esaltato, tra il religioso e il patetico. Esordì nel lungometraggio con L’elemento del crimine (1984), la cui sceneggiatura è firmata con l’amico […] Niels Vørsel; cupo thriller “metafisico”, in cui un detective indaga sotto ipnosi su un serial killer, il film inaugura una trilogia sul tema dell’Europa, terra d’Occidente, luogo del tramonto e della decadenza, qui rappresentata come un terreno acquitrinoso e malsano. La trilogia proseguì con Epidemic (1987), opera costruita su due livelli: l’uno, propriamente narrativo, imperniato sulla storia dell’idealista dottor Mesmer (interpretato dallo stesso T.), che pensa di curare la peste mentre in realtà la diffonde; l’altro, di carattere metanarrativo, in cui T. e Vørsel raccontano, in maniera derisoria e grottesca, come hanno costruito la sceneggiatura. Il ciclo si è quindi concluso nel 1991 con Europa, film sul ritorno in Germania, nel 1945, di un giovane tedesco, idealista e desideroso di aiutare la propria patria a rinascere; un’opera volutamente manieristica e ridondante […] in cui T. esaspera la sua tendenza alle complesse rielaborazioni visive delle immagini, con l’uso di retroproiezioni e di frequenti sovrapposizioni del bianco e nero e del colore» (Bruno Fornara, Treccani). Europa ottiene un grande successo di critica, vince il Premio della Giuria a Cannes. «Al talento venuto dal nord si interessa Steven Spielberg in persona; ma lui, duro e puro e già animato da un franco spirito anti-major, declina fieramente l’eventualità di dirigere un film in America» (Di Fazio) • Nel 1994 esce Il Regno, una miniserie in quattro-parti per la televisione danese, un horror-splatter ambientato nel reparto neurochirurgico del Rigshospitalet di Copenaghen. «Tutto ha inizio con il pianto di una bambina proveniente dal fondo di un ascensore di un ospedale. A sentirlo un’anziana paziente, la signora Drusse, professione medium. Era il 1994, Il Regno di Lars von Trier piombò come un meteorite sulla Mostra del Cinema di Venezia, quasi cinque ore di horror medicale in overdose di humor nero: fantasmi insepolti, feti in barattolo, cancri al fegato coltivati come trofei, lavapiatti con sindrome di Down a commentare tutto con il distacco epico di un coro greco. Osanna, invettive, scandalo, per una serie destinata a diventare di culto» (Giuseppina Manin, CdS 4/1/2023). Molti ci vedono un profondo significato artistico artistico. «Con Riget […] T. ha impresso una decisa svolta al proprio percorso artistico, abbandonando le ricercatezze stilistiche a favore di un cinema inelegante, sporco, slabbrato. Il serial, ambientato in un grande ospedale, oscilla tra l’horror e il film comico; le immagini, riprese in buona parte con la macchina a mano, sono instabili, montate in modo frammentario, senza preoccupazioni di continuità» (Fornara). Alla fine di ogni puntata, hitchcockianamente, Lars si materializza sullo schermo, indossando uno smoking, per chiosare causticamente quanto appena visto. «In realtà la serie era nata per fare un po’ di soldi e salvare la Zentropa, la mia casa di produzione. L’abbiamo presa alla leggera, l’abbiamo scritta in fretta e furia. Nessuno pensava a un tale successo». E l’idea dell’ospedale dei fantasmi? «A darmi lo spunto fu Belfagor, la prima grande serie europea che ho visto da bambino, ambientata al Louvre. A colpirmi era il fatto che il grande mondo del museo contenesse tante altre piccole storie. La scelta di un ospedale è stata in parallelo. I primi episodi erano horror, ma per via di un cast piuttosto pittoresco, si è insinuato un po’ di humour. Ne è uscito un cocktail divertente che mi ha spinto a ampliare la serie» (ibid) • «Il 20 marzo 1995 all’Odéon di Parigi, durante un dibattito sul centenario del cinema, von Trier irrompe e legge il manifesto di Dogma 95, il nuovo collettivo di estetica e azione cinematografica da lui fondato. […] Dogma è formato da una ristretta cerchia di registi associati (tra di loro il più talentuoso è Thomas Vinterberg) che obbediscono a un draconiano codice anti-hollywoodiano. Tutti gli aderenti accettano un corpo di leggi, il cosiddetto “voto di castità”. Tra i principi inderogabili: le riprese devono essere fatte sul posto e il set non può essere ricostruito; il suono non deve mai essere svincolato dalle immagini; la camera va tenuta rigorosamente a mano; le luci speciali sono bandite; vietati filtri e trucchi visivi; vige la legge dell’hic et nunc, e niente salti spazio-temporali nella narrazione. Dogma, “per costringere la verità a uscire dai personaggi e dalle ambientazioni”» (Di Fazio). Dice Vinterberg: «Sarebbe interessante vedere Francis Ford Coppola fare un film Dogma. O Scorsese. Lo scorso maggio Lars ha spedito tantissime lettere invitando questi grandi registi ad aderire a Dogma. Non abbiamo avuto risposte. Niente. Devono essere troppo impegnati a sistemare le luci». «A tali indicazioni T. si è rigorosamente attenuto in Breaking the waves, film girato in Scozia e ambientato in una piccola comunità di ferrea fede calvinista, che racconta, grazie anche alla superba interpretazione di Emily Watson, una storia di amour fou estremo, spinto fino al misticismo e all’autodegradazione. Ma è stato soprattutto con Dogme 2 ‒ Idioterne (1998; Gli idioti) che il cinema di T. ha raggiunto il punto di massima tensione: qui, infatti, i personaggi vivono in una comune, giocano a fare gli idioti e fingono di vivere una malattia che porta in superficie la loro reale angoscia, determinando una situazione paradossale, in cui appare impossibile discernere, in ogni immagine, tra realtà e messinscena» (Fornara) • «T. è passato dall’adesione rigorosa al manifesto a una sfrontata sconfessione (Dancer in the dark si apre a squarci di musical industriale e proletario), rivelando come la sua pratica autoriale sia costituita da limiti autoimposti ed eccezioni sfrontate, in una dialettica provocatoria nei confronti di una critica che fa il suo gioco gridando allo scandalo e alla cialtroneria Se dunque il realismo estremo di Dogma 95 non ha inventato nulla nell’ottica di una storia del cinema, ha però consentito l’irruzione nel territorio della fiction d’autore di un’estetica radicalmente documentaristica e l’esordio di una moltitudine di registi aderenti a questa poetica. Questi tre film formano la trilogia del cuore d’oro, in cui T. porta al parossismo il sadismo dello sguardo spettatoriale: sono mélo di ipocrita taglio realista in cui la figura femminile è martire delle ipocrisie della società, idealista sino a una letterale cecità. Con Dogville (2003) ha preso l’avvio l’incompleta trilogia americana, che è proseguita con Manderlay (2005). La scenografia dei film è assente, le città sono semplicemente disegnate sul pavimento di un palco teatrale, non ci sono pareti, non esiste separazione tra privato e pubblico: tutto è visibile, si può solo fingere di non vedere, e così i due film divengono parabole morali, sarcastiche e furenti su ciò che di contraddittorio fonda la democrazia americana. De fem benspænd (2003; Le cinque variazioni) è un manifesto poetico: un elogio della regola come ostacolo e motivo d’ispirazione creativa. Direktøren for det hele (2006; Il grande capo), che esaspera il coté comico del suo telefilm Riget (1994), fa di questo aspetto una questione di assurda pratica cinematografica: T. ha girato questa farsa sulla finanza con il ricorso alla casualità di ripresa dell’Automavision, sistema che delega la composizione delle inquadrature alle scelte casuali di un computer. Con Antichrist (2009) T. ha inaugurato la trilogia della depressione: esaltando il distacco del referente reale al tempo del digitale, T. esplicita il proprio dolore di depresso nelle forme di un cinema fortemente espressionista, che diviene terreno di scontro tra archetipi caricaturali (il maschile come ragione inadeguata, il femminile come natura incontenibile) e dove si proclama la rivalsa delle streghe, del corpo sacrificato dalla storia e incompreso dalla scienza. Melancholia (2011) fa dell’ansia apocalittica di inizio millennio una faccenda privata, smantellando scene da un matrimonio e raccontando il sollievo del depresso e il terrore del borghese di fronte all’ineluttabilità della fine. Nymphomaniac (2013), diviso in due capitoli, è un dialogo a due tra una donna sex-addicted e un uomo vergine saggio. Questo film chiude la trilogia riflettendo sullo storytelling come forma di autonalisi e sulla incomunicabilità con lo spettatore contemporaneo» (Treccani).
Scandalo/1 «Non si è spenta ancora l’eco sinistra delle sue enunciazioni nazistoidi a Cannes 2011: “Per lungo tempo ho pensato di essere ebreo ed ero felice di esserlo. Poi ho conosciuto Susanne Bier (regista danese ebrea) e non ero più così contento. Ma dopo ho scoperto che in realtà ero un nazista. La mia famiglia era tedesca. E questo mi fa anche piacere. Cosa posso dire? Capisco Hitler, simpatizzo un po’ con lui. Capisco Hitler, l’uomo: a volte me lo immagino seduto nel suo bunker quando tutto era finito e credo di capirlo”» (Di Fazio). «Compongo qui un collage delle sue dichiarazioni, desumendole da diverse fonti: “Ho scoperto di essere nazista”, “Hitler lo capisco”, “Per lui provo simpatia”, “Israele è una spina nel fianco” (traduzione buonista), e infine, drastico e definitivo: “Ok: sono nazista”, con l’aggiunta minacciosa: “Siccome noi nazisti pensiamo in grande, potrei fare il film La soluzione finale”. Fermiamoci e ragioniamo. È giusto fare un’abbondante tara a quelle dichiarazioni, perché Lars Von Trier non è sempre compos sui, padrone di sé. Le traversie della sua vita lo spiegano. Ma ignorarle vorrebbe dire non darci importanza, e lui l’importanza se la merita» (Ferdinando Camon).
Scandalo/2 Fiumi di inchiostro vennero versati nel 2014, quando uscì Nymphomanic. Sulle locandine promozionali compariva tutto il cast (da Uma Thurman a Shia LaBeouf, da Willem Dafoe alla Gainsbourg, passando per Stellan Skarsgard) col il viso trasfigurato dall’estasi del piacere.
Donne «Probabilmente il pubblico femminile si sente così attratto dal cinema di Von Trier perché si sente violentato dentro, e ringrazia così il Maestro Von Trier di aver “violato” la propria intimità mentale e psichica producendo dei personaggi femminili sempre complessati, distrutti, martirizzati, offesi, umiliati. Dal punto di vista strettamente psicologico è un ricatto narrativo niente male» (Michele Centini).
Religione Di Dio che dice? «C’è un Dio creatore, che fa buone cose ma anche il loro opposto: la vita e la morte. Ha creato il mondo, e pure il dolore. Dunque, un Dio sadico».
Curiosità Alto 1 metro e 70 • In passato ha assunto il nome alternativo di Erik Nietzche • Dice che non va più al cinema e riguarda solo film vecchi • Tra i registi italiani suoi preferiti: Pier Paolo Pasolini e Liliana Cavani • «Ai miei quattro figli che vogliono tutti fare cinema ho detto: “Oh, per favore, no!”» • Oggi ha il morbo di Parkinson. «Mi dice che vorrebbe vedere un altro film mio?». «Anche io lo vorrei vedere. Facciamoci allora una promessa. Che andremo entrambi a vedere il mio prossimo film…». La malattia gli impedisce di muoversi come prima. «Devo trovare il modo di sfruttare il tremolio per l’uso della camera a mano» • «L’inferno è la vita. Non c’è modo di tornare indietro».
Titoli di coda Il cinema è sempre al centro della sua vita? «È l’unica cosa che so fare, quindi devo continuare a farlo. Costi l’ansia che costi. A questo punto della vita sono morbosamente solo. Ho sempre creduto che la solitudine fosse una forza, ma devo rendermi conto di quanto possa essere dolorosa» (Giuseppina Manin).