La Stampa, 3 maggio 2024
La storia d’amore tra Mattia Feltri e il Toro
Conservo due libri che mi furono regalati per il decimo compleanno, roba di quarantacinque anni fa. Entrambi di Edi-Grafica, casa editrice di cui ho perso le tracce. Il primo è di Franco Ferrara, Il gol come favola, una biografia di Ciccio Graziani. Amavo Graziani ma ero stupito e irritato che non ce ne fosse una su Paolino Pulici, totem della mia infanzia. L’altro è di Giglio Panza, Il Torino e la sua leggenda: devo stare attento a come lo maneggio, l’ho letto e riletto, consumato, le pagine rischiano di restarmi in mano. Nomi granata perduti nel tempo: Antonio Janni, Julio Libonatti, Adolfo Baloncieri. Quel sonetto stilnovista che comincia così: Bacigalupo, Ballarin, Maroso… L’amore è un fenomeno insostenibile per l’anima e infatti l’amore, quando arriva, non arriva e basta: travolge. Io fui travolto. Nel libro di Panza c’è una foto della Basilica di Superga scattata dall’alto, una freccia bianca tracciata come consentivano le grafiche di allora, a indicare da dove veniva e dov’era diretto l’aereo che settantacinque anni fa cancellò dalla faccia della terra, per eternarla nell’epica, la squadra degli Invincibili. Il sonetto stilnovista che proseguiva così: Grezar, Rigamonti, Castigliano… La morte non cancella l’amore, lo rende irrimediabile. Guardavo la foto, e quando mi ricapita la guardo ancora, con sbalordimento: era l’epicentro sacrale del mio amore per il Toro. Era la freccia che contava: la freccia non si interrompeva nel luogo dello schianto, proseguiva e, per sempre, proseguiva il sonetto: Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola.Non seguo più il Toro perché lo amo. Mi sono liberato di un amore conservato per inerzia, così meglio sopravvive l’amore per il Toro che non c’è più. Qualche volta tradisco il proposito perché al solo leggere la parola Torino mi si squaderna un catalogo di emozioni. La parola Torino accoppiata alla parola Juventus mi sembra un’opera d’arte: Torino-Juventus, Juventus-Torino. Come un quadro che, quando è un capolavoro, esplode fuori dalla cornice. Se perdevamo il derby, dentro di me tambureggiava un urlo – Toro! Toro! Toro! – che era il rifiuto della resa e già l’inizio della riscossa. E li vincevamo i derby. Pulici e Graziani. I tre gol di Dossena-Bonesso-Torrisi a ribaltare in cinque minuti uno 0-2. Il colpo di testa all’ultimo secondo di Aldone Serena su corner di Leo Junior. La doppietta di Casagrande su due assist di Martin Vazquez. Allo stadio Delle Alpi, al sinistro di Paolino Poggi che fece fuori la Juve dalla Coppa Italia, tracollai giù dalle gradinate abbattendo sei o sette tifosi e me li ritrovai subito addosso, credevo per darmi la paga, e invece per moltiplicare la furia dell’estasi.Qualche volta, dicevo, tradisco il proposito. Ho bisogno di vedere il granata delle maglie e il verde del campo. L’ultima volta è stato un paio di mesi fa. Torino-Salernitana. Era il trentesimo del primo tempo. Mi sono visto il quarto d’ora fino all’intervallo e in quindici minuti il Torino non è mai entrato in area, ha fatto girare palla da sinistra a destra con brevi passaggi, poi con brevi passaggi da destra a sinistra, ed è finito il primo tempo e mi sono chiesto: che ci faccio qui? Ho spento la tv. Ho poi saputo il risultato finale: zero a zero.Riconosco al presidente Urbano Cairo i meriti di un Toro in A da un decennio abbondante, quasi sempre a metà classifica, non in stato prefallimentare come succedeva prima di lui. Però mi annoio. L’amore o ti scuote le viscere o non è amore. Non è una faccenda di risultato, non per me. Non è importante vincere o perdere. L’importante è amare. E io, ragazzi, mi sono attraversato gli anni oscuri di Ipoua e Cammarata, di Jurcic e Scarlato, di Osmanovski e Nunziata, e ditemelo voi se non è amore. L’amore è avere fame di presente e speranza nel futuro e non li ho più.Non so se sono io a essere cambiato oppure il Toro. Probabilmente io. Quando gli anni passano e il tempo che resta si assottiglia, viene l’istinto di gestirlo meglio e a me due ore davanti alla tv ad annoiarmi, a cercare di ardere per formazioni che cambiano della metà di stagione in stagione, a fingere con me stesso che sia tutto come prima, granata il granata e verde il verde, mi pare tempo buttato. Non mi va nemmeno di ritirare fuori il trito della retorica, il famoso tremendismo ovvero l’irriducibilità del Toro alla morte iscritta a Superga, la metafisica del Filadelfia, il campo degli Invincibili (Bacigalupo, Ballarin, Maroso…) su cui s’allenavano Claudio Sala e Zaccarelli, una storia evaporata in leggenda nemmeno più tramandabile: è tutto sepolto dalla distanza degli anni. Chi di quei bravi ragazzi, che indossa la maglia granata come una camiciola estiva, saprebbe recitare il sonetto stilnovista? E perché dovrebbe saperlo recitare? Perché dovrebbe conservare una memoria che non è la sua?Sì, è colpa mia. Prima vivevo nella certezza dell’affinità elettiva fra me e i giocatori. Sapevo di essere del Toro quanto lo sapevano loro. I miei sentimenti tempestosi erano i loro stessi sentimenti. Il mio amore era il loro stesso enorme straziante amore. Il mio sonetto stilnovista era il loro canto, né più né meno. Oggi la certezza non c’è. È come se guardassi il Toro e non è il Toro. Io voglio vedere il Toro, credo di vedere il Toro e invece davanti a me c’è un’altra squadra, ha una maglia che rassomiglia alla maglia granata ma non lo è.Colpa mia anche se l’amore che finisce non è una colpa e di sicuro non esclusiva. L’opera d’arte – Torino-Juventus, Juventus-Torino – ora è immagine in dissolvimento. Devo ripensare a Pecci, a Cravero, a Scifo, pure a Quagliarella, perché dentro di me tambureggi ancora Toro! Toro! Toro! Altrimenti sento un silenzio ebete, al massimo lo squillo del telefonino per il messaggio del mio amico Federico Monga con lo score dei derby al tempo di Cairo: una vittoria, sei pareggi, ventitré sconfitte.Ciao Toro, non ti amo più perché voglio amarti ancora. Guardo la foto di Superga dal libro di Panza, la freccia prosegue per sempre e per sempre reciterò il sonetto: Bacigalupo, Ballarin, Maroso... Forse un giorno, chissà…