il Giornale, 3 maggio 2024
Leggete Guido Morselli ultimo eroe del racconto
Quasi nascosta in un parco, con vista su quello che un tempo si chiamava lago di Gavirate e che oggi si chiama lago di Varese, c’è una piccola casa all’interno della quale appare, di tanto in tanto, un fantasma.
Recentemente anche un esimio regista e professore dell’Università di Pavia ha avvertito un indizio della sua presenza. Arrivato fin lì per girare un docufilm, s’è trovato a fare i conti con misteriose oscillazioni della telecamera. Qualche tempo prima alcuni ragazzi, da quelle parti per svolgere il servizio civile, erano fuggiti nel cuore della notte perché terrorizzati da una qualche spaventosa apparizione. E pare che tutto sia cominciato anni fa, quando la figlia della custode della casa si era trovata, entrando, a scorgere distintamente un uomo che era seduto in camera da letto, e che era scomparso d’un tratto. Spaventata, aveva raccontato tutto alla mamma, la quale le aveva risposto mostrandole una fotografia. «È lui», aveva detto la giovane.
Era lui: Guido Morselli, morto suicida la notte fra il 31 luglio e il primo d’agosto del 1973 nella dépendance della sua villa in via Limido a Varese. Dopo che il colpo di Browning 7,65 ebbe lasciato il corpo esanime, lo spirito emigrò evidentemente in quella piccola casa sul lago di Varese detto allora di Gavirate: la piccola casa che si chiama Casina Rosa, e che di Morselli era il buen retiro. E lo spirito emigrò lì per restarvi, quasi come atto d’accusa, quasi a dire: non mi sono ucciso io, mi avete ucciso voi. «Voi», «voi dirigenti delle più grandi, anzi di tutte le case editrici italiane; voi che, me vivente, avete respinto tutti i miei scritti; per scoprirne poi, solo dopo la mia morte, la grandezza».
Se sia vero a no che alla Casina Rosa circoli tuttora un fantasma, non si può dire. Ma con certezza si può dire che lo spettro di Guido Morselli pesi, da quel primo di agosto in cui la domestica scoprì il cadavere, sulla coscienza di tutti coloro che non seppero comprendere il genio.
E che in un mondo di sedicenti geni incompresi Guido Morselli faccia eccezione, essendo uno dei rarissimi casi di geni davvero incompresi, lo capirà anche chiunque prenderà in mano il volume che da oggi, 3 maggio, il Saggiatore manda in libreria: Gli ultimi eroi, a cura di Giorgio Galetto, Fabio Pierangeli e Linda Terziroli. È un volume (640 pagine, 29 euro) che raccoglie tutti i racconti di Morselli e tutte le sue sceneggiature teatrali, anch’esse proposte invano, e mai accettate da alcuno. Sì: chi leggerà questo volume resterà incredulo. Come fu possibile che nessuno, da Vittorio Sereni a Geno Pampaloni, da Italo Calvino a Luciano Foà e a Carlo Freccero, per non dir dei meno noti, come fu possibile che nessuno ritenesse questi scritti degni di pubblicazione?
Dei racconti raccolti nel volume de il Saggiatore ne citeremo solo alcuni, per brevità: ma non ve n’è uno che non meriti di essere letto, e con stupore. Morselli ricorda, a tratti, il grande Dino Buzzati: accede al mondo della fantasia per comunicare la realtà. Come ne Il grande incontro, dove immagina, in piena guerra fredda, una visita di Stalin a Pio XII; visita nella quale il dittatore propone un patto per la spartizione del potere e del mondo, e Sua Santità lo respinge ricordandogli le parole di Gesù a Satana: sta scritto di non tentare il Padre Vostro. Colpisce anche, di Morselli narratore, la capacità di descrivere i due interlocutori con tanta e tale minuzia di dettagli: i piccoli gesti, il tono della voce, il cerimoniale vaticano.
Gli ultimi eroi, il racconto che dà il titolo al volume, è di una stringente attualità. Morselli riferisce la testimonianza, ovviamente solo immaginata, di un ufficiale americano alla fine della Seconda guerra mondiale. Rivela costui che nei giorni della fine del Terzo Reich, mentre Berlino bruciava e Hitler si toglieva la vita, il suo reggimento si imbatté nella ostinata resistenza di un gruppo di tedeschi asserragliati in un improvvisato bunker. Dopo che le bombe americane misero fine a quell’ultima incomprensibile battaglia, si scoprì che il bunker non era altro che un manicomio, nel quale un reduce della Prima guerra mondiale, ancora convinto di combattere per il Kaiser, aveva reclutato gli altri matti e fatto fuori medici e infermieri, prendendo il comando. Erano pazzi, dunque. Ma non è forse sempre pazzia, la guerra? Forse non è follia anche quella cui assistiamo oggi, nei cinquanta e più massacri in corso nel mondo?
Nato a Bologna nel 1912 da un’agiata famiglia il padre importante imprenditore e deputato fascista Guido Morselli emigrò bambino a Milano; quindi a Varese, dove sarebbe rimasto tutta la vita. La morte lo corteggiò fin da subito, portandogli via la madre, vittima della spagnola, e la sorella Luisa. Ed egli stesso continuò a corteggiarla, la morte: interrogandosi costantemente su Dio, in cui non credeva, ma avrebbe voluto credervi.
Ricco di famiglia e pertanto nella beata condizione di poter rifuggire dal lavoro al quale dava rigorosamente del Lei per mantenere una doverosa distanza Morselli fu un personaggio eccentrico, dandy di provincia e grande tombeur de femmes. Non si sposò mai e non ebbe figli, ma molte amanti: la più importante delle quali (anche i casanova e i dongiovanni vivono, tra le tante avventure, un amore) fu Maria Bruna Bassi, più anziana di lui, figlioccia di Eugenio Balzan, direttore amministrativo del Corriere della Sera e braccio destro di Luigi Albertini.
Passò dunque la sua vita a scrivere, ma riuscì a pubblicare solo due libri: Proust o del sentimento nel 1943; Realismo e fantasia nel 1947. Il primo glielo pubblicò Garzanti, il secondo i Fratelli Bocca. «Ma entrambi a spese del padre», racconta Linda Terziroli, giovane professoressa e scrittrice varesina, autrice della biografia di Morselli (Un pacchetto di Gauloises, Castelvecchi editore, 2019).
Nel racconto La voce, che pare anch’esso di stampo buzzatiano, Morselli immagina l’incontro, in un bosco nell’aldilà, fra il commissario Luigi Calabresi e l’anarchico Giuseppe Pinelli. «Sei stato tu a cercare che t’ammazzassero», dice Pinelli. «È vero», risponde Calabresi, «ma anche tu, Pinelli, quella finestra l’hai spalancata apposta. E ti sei buttato». «Ti meravigli? Ero stanco. Tu e i tuoi addosso, con gli interrogatorii, e il primo, di dodici ore continue. Una notte e due giorni di interrogatorii. E gli spintoni, gli schiaffi, le insolenze. Chiedo un caffè, e me lo fate portare. Poi me lo buttate in faccia, il caffè». Non è, questo racconto, un atto d’accusa contro nessuno. È che a un certo punto sia Pinelli sia Calabresi sono vittime delle circostanze e sentono una voce che dice loro: basta. È la voce della Nera Signora, ma forse anche di una liberazione.
È la voce che arriva, poco dopo, anche a Morselli. Il 31 luglio 1973 trova nella buca delle lettere di casa, rispedito al mittente, il dattiloscritto di Dissipatio H. G., che sarà poi considerato il suo capolavoro. E dice basta. Era tempo che pensava di dire basta. «Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato () Ho pregato, non ho ottenuto nulla; ho bestemmiato, non ho ottenuto nulla», aveva scritto nel Diario già il 6 novembre 1959. Nessun giornale, neppure La Prealpina di Varese, diede notizia della sua morte. «Suicida per amore della vita», dice Linda Terziroli. «Ma da quel colpo di pistola si accese una luce sulla sua opera».
Un anno dopo Adelphi avrebbe pubblicato Roma senza papa e sarebbe esploso il caso Morselli.