Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  maggio 02 Giovedì calendario

Intervista a Barbara Leda Kenny

Chiedetevi chi pulisce il bagno in casa, perché da lì si può ragionare su parità, carichi di lavoro e natalità. Ne parliamo con Barbara Leda Kenny, esperta in politiche di genere e coordinatrice del webmagazine ingenere.it. È tra le fondatrici della libreria delle donne Tuba di Roma.
Che cosa sta dentro la definizione di gender mainstreaming?
«È un approccio strategico con l’obiettivo di raggiungere pari opportunità tra uomini e donne. Quando noi non ragioniamo su chi sono i destinatari delle politiche, allora andiamo a impattare di più su chi ha già dei privilegi, cioè gli uomini. Faccio un esempio. Siamo in una fase di importante transizione digitale, sono tante le politiche per la formazione e l’inclusione. Ma alla base va considerato e riconosciuto il digital gender gap da colmare, perché il punto di partenza tra generi non è lo stesso. Serve una comunicazione rivolta alle donne, che le faccia sentire non escluse, così si possono compiere delle azioni compensative sulle differenze di genere».
PUBBLICITÀIn Italia come siamo messi?
«Il Pnrr era una cornice ampia, perfetta, per testare questo approccio. Ma la realtà è che senza la volontà politica si possono avere tutte le belle idee del mondo, ma non funzionano. Il Pnrr prevedeva degli strumenti di gender equality come la clausola di condizionalità negli appalti pubblici, le donne, i giovani e le persone con disabilità dovevano avere una quota nella nuova occupazione. Ma nella stessa legge che contiene la clausola è stata fatta pure la deroga e più della metà dei bandi è uscita così, con uno strumento nei fatti depotenziato. Non esistono politiche neutre dal punto di vista del genere, ma c’è una visione che le forma. L’Italia è ancora molto lontana dal modello dual earner, dual carer, dove entrambi i partner sono coinvolti nel lavoro remunerato così come nella cura di bambini e familiari non autosufficienti»
Lei sarà ospite il prossimo 12 maggio all’Internazionale Kids a Reggio Emilia, la quarta edizione del festival di giornalismo per i più piccoli, con un dibattito dal titolo “Lavoro gratis”. C’è più consapevolezza del lavoro di cura come lavoro a tutti gli effetti, ma non retribuito e anche malamente distribuito?
«È un dibattito complesso. C’è il tema degli strumenti culturali a disposizione della coppia: l’organizzazione più paritaria riguarda i nuclei in cui lavorano in due, che hanno un tasso d’istruzione più alto. Il livello di istruzione conta, ma la coppia rimane in ogni caso sbilanciata. Si vedono dei cambiamenti soprattutto nel ruolo dei padri, molto più presenti dei loro padri. Le donne italiane stanno dicendo che non sono più disposte a sopportar l’enorme carico di cura, e lo dicono nelle loro scelte riproduttive: fanno sempre meno figli, sempre più tardi, solo se lavorano. Anche se si manifesta attraverso la sottrazione, vediamo la protesta delle donne rispetto al carico di lavoro ancora sbilanciato. Ecco perché cito spesso questo dato, che può sembrare poca roba, ma fa riflettere: il bagno nel 94 per cento dei casi lo puliscono le donne. Perché? Non serve nessun afflato particolare. Alcune cose vengono considerate un dovere delle donne, altre no».
Che cosa ne pensa della maternità che deve tornare a essere cool?
«Queste definizioni prendono piede perché contengono il seme di qualcosa che ha senso. La maternità può essere divertente e nutriente, ma lo è nella misura in cui non porto il carico da sola, non sto a casa solo io, non rinuncio al lavoro o alla carriera perché mi dedico ai figli. Siamo tra le prime generazioni a poter scegliere liberamente se e quando diventare madri, evviva».
A superare gli stereotipi di genere si può iniziare da piccoli?
«Certo che si può fare e non abbiamo mai avuto così tante possibilità per farlo. C’è un modo di libri, giochi, proposte, cartoni e film per bambini senza messaggi stereotipati, sotto diversi profili. Mio figlio è nero, a casa abbiamo una super collezione di libri con bambini non bianchi. Anche se l’esempio della comunità adulta, la comunità educante, resta fondamentale. L’anno scorso sono stata per la prima volta all’Internazionale Kids, con un laboratorio su paghetta si e paghetta no. Anche se i dati vanno presi con le pinze, perché arrivano dalle banche e sono pensati per vendere prodotti bancari, le discriminazione passa anche da lì. Per i maschi il classico compito da retribuire è lavare la macchina, per le femmine la cucina. Quest’anno il laboratorio sarà invece sul lavoro gratis. Se vai al ristorante per cucinare sei pagato, a casa lo fai gratis. Se ti viene a prendere all’asilo la baby sitter è pagato, se lo fa mamma è gratis. Ragioniamoci».
E come si comportano i genitori a casa, quanto conta?
«È fondamentale. Un maschio che vede il papà lavare e cucinare, prendersi cura di lui, sicuramente crescerà con un modello maschile inedito: gli uomini iniziano a prendersi cura, è una bellissima opportunità. Se il cool si basa sul presupposto che il prendersi cura è bello, per gli uomini questa è una scoperta e opportunità straordinaria».
Riusciremo mai a vedere un negozio di abbigliamento che non sia diviso tra maschi e femmine? E di giocattoli?
«Sull’abbigliamento al momento vestire un bimbo di sei anni senza teschi o super eroi è impossibile, lo dico per esperienza. Sui giocattoli qualche segnale positivo in più c’è, per esempio Lego ha degenderizzato tutti i suoi giochi. Un po’ per le critiche, un po’ perché la società cambia e ha richieste diverse, ma le cose cambiano».