Tuttolibri, 27 aprile 2024
Intervista a Joel Dicker
Joël Dicker sembra non invecchiare. O forse è che è ancora molto più giovane della sua fama consolidata di autore di bestseller che giustificherebbe almeno qualche ruga. E invece no. Dicker sorride, in questa stanza assolata di Madrid dove nel pomeriggio presenterà il suo ultimo libro, Un animale selvaggio. È appena tornato da una corsa, perché correre aiuta a scrivere (come suggeriva Harry a Marcus in La verità sul caso Harry Quebert). Il nuovo libro è ancora una volta padrone delle classifiche di vendita. Chissà se Dicker ci pensa, mentre scrive, a come fare per tornare in cima alla classifica. «A dire il vero, proprio no, non penso mai a come reagiranno i lettori mentre scrivo. Il successo di questo nuovo libro è per qualcosa che ho scritto nove mesi fa. Mi rende felice per tutto il lavoro che ho fatto, ma non mi aiuta né mi condiziona in alcuna maniera per quello che sto scrivendo ora. Grazie a Dio sono pieno di dubbi. Avere dubbi e non pensare alle vendite mi rende felice, perché mi rende libero. Quando scrivo torno sempre ai miei primi passi, a quando scrivevo libri che nessuno leggeva e gli editori rifiutavano».E oggi che i suoi libri sono stati letti da almeno 15 milioni di lettori in tutto il mondo?«I miei sentimenti come scrittore sono gli stessi. Ogni volta ricomincio da capo».Da dove?«Non inizio da un personaggio, da un’idea per una storia, ma da una domanda che diventa all’improvviso impellente: davvero voglio scrivere un nuovo libro, proprio questo nuovo libro che inizia a venirmi in testa? Davvero voglio impegnarmi in tutto questo lavoro, in tutti questi sacrifici, in tutta questa cosa che si prenderà tutta la mia vita, perché quando sto lavorando, anche se non sto materialmente scrivendo, riesco a pensare solo al libro? È da questa domanda che nasce ogni mio nuovo lavoro. Perché scrivere un romanzo è un dannato sacrificio, una fatica che solo alla fine capisci se valeva la pena fare».Come si sente quando finisce un libro?«Esausto. Come alla fine di una maratona. Penso che non voglio scrivere mai più una sola parola, che quello che ho appena finito sarà l’ultimo».E poi?«E poi succede come quattro mesi fa. Avevo passato gli ultimi sei mesi a leggere e rileggere la stessa storia, a correggere, limare, riscrivere. Ho consegnato all’editore la versione definitiva di Un animale selvaggio il 20 dicembre. Iniziavano le vacanze di Natale, eravamo tutti a casa, pronti per staccare completamente. Ma dopo due giorni mi è venuta un’idea».Quindi ora sta scrivendo il prossimo romanzo?«Sì. Sono all’inizio del progetto, ho iniziato a scrivere seriamente due mesi fa. Sto iniziando a capire dove sta andando questa storia. Ancora non mi è tutto chiaro e ci sono alcune parti che non sono a fuoco. Sono uno che scrive le cose man mano che vengono, il mio processo di scrittura è sempre in divenire e quindi spesso molte cose cambiano. Più vado avanti, più mi accorgo che devo tornare indietro verso l’inizio per cambiare le cose, per renderle coerenti con lo sviluppo. Per me è un continuo riannodare i fili».Dove sarà ambientato questo nuovo libro?«A dire il vero al momento non so dire ancora dove sia ambientato, e in realtà sto pensando che potrei anche lasciarlo così, in un luogo non definito»."Un animale selvaggio” è ambientato a Ginevra, la sua città. I protagonisti sono quasi quarantenni, con figli piccoli. I suoi romanzi si stanno avvicinando alla sua vita?«Senza dubbio il sottotesto dei miei libri è molto vicino a quello che io sono. Harry Quebert era un libro in cui la domanda fondamentale su cui si basava tutto era “chi sono io e cosa voglio diventare”. Avevo venticinque anni quando l’ho scritto e quella era la domanda cruciale per me».Il tempo cambia le domande che ci facciamo?«In questo ultimo libro a mettere in moto l’azione è il sentimento di non avere mai abbastanza, di non apparire mai abbastanza, di non essere mai abbastanza. I personaggi sono tutti a loro modo inseriti nella società, hanno successo nelle cose che fanno. Ma qualcosa li spinge sempre a volere di più. La spinta è data dal vedere qualcuno che ha di più e ti fa chiedere: perché non provo a raggiungerlo? Questo per me ha a che fare con le domande importanti della vita. Il discrimine tra l’ambizione, il sogno, la speranza e l’insoddisfazione è molto labile. Dov’è il limite tra essere ambiziosi ed essere insoddisfatti? Non c’è in questo un giudizio morale, ma è una cosa che mette in discussione. Perché fa chiedere a te stesso dove bisogna fermarsi, quanto dobbiamo rimettere in discussione il nostro stile di vita. Quanto di quello che abbiamo e abbiamo fatto finora sia per soddisfare i nostri desideri più profondi o invece non sia qualcosa che abbiamo costruito per non deludere le attese che c’erano su di noi».Ha paura di non essere accettato dagli altri?«Ho paura di non essere accettato come ne ho di non essere abbastanza bravo a fare le cose che faccio. Sono questo tipo di persona: penso di non essere bravo abbastanza, intelligente abbastanza, divertente abbastanza. Ho sempre ammirato molto le persone che ho avuto intorno e ho sempre pensato che fossero molto migliori di me. Quando vedo qualcuno di bravo lo ammiro e penso che dovrei mettermi sotto per fare meglio anch’io. Forse è per questo che nei libri non mi ergo a giudice dei personaggi. Non c’è mai moralismo nei miei libri, ma un confronto sulle cose che esistono e sulla società che le circonda».Cosa le fa paura?«La cosa principale che ho capito tra i miei 25 anni e i miei 40 è che la vita è breve. Questa può sembrare una frase molto naive e semplice. Anzi, lo è. Tutti la sottoscrivono, ma quasi tutti non fanno nulla per vivere di conseguenza. Questo mi fa paura, non vivere di conseguenza. E questo ha molto a che fare con i personaggi di Un animale selvaggio e con il modo in cui costruiscono le loro vite. Come le stanno costruendo? Per loro stessi o per la società? In questa società dell’apparenza, dei social, di Instagram, le persone si costruiscono per poter essere guardate e ammirate o per cosa è davvero importante per loro? Queste persone che sono sposate, magari con figli, fino a che punto sono disposte a combattere per quello che hanno costruito? Oppure sono continuamente tentate di abbandonare tutto quello che hanno fatto perché la vita è corta e vale la pena viverla senza legami? Non c’è una risposta giusta, ma questa è la domanda che mi pongo e che pongo in questo libro».Crede i suoi lettori la seguano per le domande che pone nei suoi libri, nascoste dietro la trama?«Io credo che ci sia un legame con i lettori quando si condividono sentimenti che sono molto comuni. Come la paura, i dubbi, le aspirazioni. Ma non uso questi temi perché penso che siano universali: li uso perché sono quelli che agitano la mia mente di persona molto normale, nella media».Le persone normali, nella media, incasinano le loro vite come i suoi personaggi perché nascondono troppi segreti?«Bisogna riflettere su cosa sia un segreto. I segreti sono, all’inizio, solo cose che non condividiamo con gli altri, pezzi di informazione che teniamo solo per noi. In questo libro in particolare si raccontano i segreti nella vita di coppia. Le coppie sono fatte da persone che evolvono i diverse direzioni, ma vivono nella stessa vita. All’inizio stanno insieme perché condividono una visione, un sogno, dei desideri. Ma cosa succede dopo dieci anni, quindici anni, venti anni? Ci sono momenti in cui bisognerebbe condividere quello che si pensa con il proprio partner anche per fagli sapere dove ci abbia portato la nostra evoluzione, ma spesso non lo si fa. E più non si condividono le informazioni, più i silenzi diventano segreti e i segreti si ingigantiscono e prendono spazio, aumentando il loro effetto sulla vita. La maggior parte dei segreti nascono da qualcosa di veramente piccolo e trascurabile, ma che crescendo diventa una parte importante di te, che condiziona la tua vita».I segreti tra i personaggi fanno la fortuna di una trama?«Sì, perché il lettore vede i personaggi che vanno verso un baratro, mentre lui sa che basterebbe che si parlassero per evitare un disastro».Come nei suoi libri, torniamo all’inizio. Quindici anni fa la domanda cruciale per la sua vita era: sarò uno scrittore? Ha trovato la risposta?«Sono i lettori a dirti se sei uno scrittore o no. Per molto tempo ho scritto libri che nessuno leggeva e che nessuno era interessato a pubblicare. Ma la cosa che più desideravo era diventare un autore e che a farmici diventare fossero le persone che leggevano i miei libri».Sembra sia andata bene.«Sì, ma ogni volta ricomincio da capo».