Robinson, 28 aprile 2024
Il poeta Goffredo parla di trulli, Mediterraneo, poesia
Nella vita è il poeta editore.Giuseppe Goffredo si pubblica i suoi versi, ma trova il tempo, la voglia e la competenza per dedicarsi ai libri altrui. E a sfogliarlo il catalogo della casa editrice Poiesis non è male. Nel senso che le varie collane si articolano in un progetto culturale con al centro una certa idea di Mediterraneo, luogo trafitto dalle tragedie ma anche denso di storia e suggestione.Goffredo vive da sempre ad Alberobello, nella Valle d’Itria, in una bomboniera di pietra e sassi.Ha una moglie psicoanalista e due figli. In un pomeriggio sfiorato da una luce tenue, che si perde nel bianco del paese, giriamo fra i trulli, patrimonio dell’Unesco: «Il trullo è una costruzione antichissima, le stesse forme», mi dice «si trovano anche altrove. Si chiamano thòloi,piccoli edifici circolari, a volte tomba, rifugio o casa. Diffusi da Oriente a Occidente nella civiltà mediterranea. A Tozeur, in Tunisia, fotografai la tomba di un marabut fatta a trullo. A sud del Cairo c’è un’intera necropoli di queste costruzioni, e bellissimi villaggi a trullo nelle campagne di Aleppo. Molti ne ho visti viaggiando da Baghdad a Damasco. Ad Harran, nel nord est della Turchia,nella parte curda, ci sono lequbab, alveari di trulli in mattoni. Per non parlare dei nuraghi sardi e deikazun in Istria. Ho visto bellissimi trulli nei campi di lavanda in Provenza. E sull’isola di Skellig Michael, in Irlanda, mi capitò di scoprire un insediamento monastico medievale a trullo».L’estensione geografica di queste costruzioni farebbe pensare più a un’origine temporale che spaziale.«L’epoca di riferimento è quasi certamente neolitica. Proprio in Puglia si concentrano i maggiori siti del periodo neolitico. In uno di questi, la grotta Scaloria di Manfredonia, scavò la lituana Marija Gimbutas, una delle più importanti archeologhe dello scorso secolo. Fu lei a ipotizzare che i reperti ritrovati, per lo più oggetti rituali, rinviassero al culto della Dea Madre le cui forme alludono alle proporzioni stesse del trullo. È un tipo di architettura madri-lineare».Ossia?«Ithòloie i trulli hanno linee che sembrano ripercorrere le spalle, le cosce e il ventre delle Dee Madri. Questa immagine presuppone una visione circolare della vita. Dea Madre è la Natura stessa che presiede ai cicli del divenire e delle stagioni: vita, morte, rinascita. Tutto torna, si ripete e ogni cosa danza e volteggia uguale a se stessa e ogni volta è come fosse la prima volta. Lo stesso stupore che a volte la poesia provoca».A proposito di poesia hai raccolto i tuoi versi in“Cadere nutre la terra”. Al posto dell’introduzione hai messo una breve antologia di critici e poeti che si sono occupati di te: Dario Bellezza, Alfonso Berardinelli, Natalia Ginzburg, Marco Forti, Maurizio Cucchi, Gianni D’Elia, Giorgio Manacorda, Renzo Paris, Toni Maraini. Tutti insistono su questo tuo rapporto con la natura. Qualcuno ti paragona perfino a Rocco Scotellaro. Tu come ti vedi?«So che non potrei pensarmi diversamente da come sono. Ma chi sono davvero non saprei dirtelo. Ho una biografia, una storia, certo. Ma per me è sempre stato difficile pronunciare la parola “poeta”».Perché?«Forse perché lo immagino dove non mi aspetto che sia. La poesia non la scegli, sei scelto da essa; non la scrivi, sei scritto. Guai a chi dice: “sono un poeta”. È proprio in quell’istante che la poesia tradisce e se ne va. È la più umile tra le arti, quella che meno va esibita: una pellicola che esposta alla luce del sole brucerebbe. Nessun poeta sa se la poesia arriva, ma quando irrompe, improvvisa e rapida, deve farsi trovare pronto. Entrare nell’officina del linguaggio con disciplina e talento».Ti chiedevo del rapporto con la natura.«Per me imprescindibile. Sono nato ad Alberobello in un’alcova di pietra, ma ho vissuto l’infanzia in campagna. Ricordo mio padre che tornava tutte le sere imbiancato di polvere. Faceva il manovale nei frantoi che sgranavano la pietra. Lo ha fatto per tutta la vita. Oggi ha 101 anni e penso che la sua carne sia impastata con quel materiale. Allora la campagna era un luogo dove non si stava bene. Ma si era a contatto con la natura».Cosa ti ha insegnato?«La mia è stata la scuola degli alberi, degli ulivi e dei boschi di querce. Ho imparato a guardare il cielo. E dal cielo a giugno, durante il periodo della mietitura, vedevo migrare le gru. Arrivavano dall’Africa e andavano verso Nord. Erano gli ultimi stormi che volavano disegnando una specie di cuneo che fendeva l’aria. Le sentivo dal baccano che producevano. Il loro suono le teneva insieme. Lì, in quel mondo naturale, di cielo, di terra e di mare, è nata la mia poesia. Per me fu fondamentale per capire lo spirito del Mediterraneo».La tua prima raccolta di poesie?«Risale ai primi anni Settanta, ero poco più che un adolescente e le intitolai Poesie di provincia. Quando apparvero scoprii che mio padre le portava con sé.Usciva di casa alle cinque del mattino e durante la pausa del pranzo se le faceva leggere da un muratore. Nonostante fosse analfabeta scoprì il valore del suono, e di una voce che non ho mai udito. Mi commuove sapere che a volte compensava la fatica mettendosi in ascolto di quel piccolo universo che provavo a descrivere. Tutto diverso fu l’atteggiamento di mia madre. Pieno di dubbi».Dubbi perché?«Non lo so, conservava il trauma di un abbandono da piccola e nella poesia, sospetto, vedeva solo parole inutili. Lacerata dal suo vissuto tentò di distogliermi. Non ero il risultato di una borghesia agiata. Sapevo fin da giovane che avrei dovuto lavorare e guadagnare il necessario. Ho vissuto per lungo tempo la parola “poeta” come se fosse una colpa».Che lavori hai fatto?«Quello che capitava: dal cameriere al venditore di enciclopedie, all’impiegato. Lavoravo e studiavo. Mi sono laureato all’università di Bari in filosofia con Giuseppe Semerari».Non hai mai pensato di fare la carriera universitaria?«Non sarebbe stato facile, anche alla luce del fatto che ero uno studente lavoratore. E poi non avevo nessuna sintonia con i codici dell’accademia, con quel tipo di scrittura. A quel tempo mi ero interessato alla figura di un quasi omonimo: Giovanni Semerano, che era di Ostuni e grande studioso di lingue semitiche. Mi colpì il suo tentativo di retrodatare l’influenza sulla nostra cultura europea a prima dell’indoeuropeo, cogliendo la fase aurorale direttamente nel mondo mesopotamico. Le sue ricerche mettevano radicalmente in discussione la concezione filosofica dell’infinito, quella ricondotta ai presocratici e in particolare ad Anassimandro e alla sua idea di ápeiron, cioè l’infinito come origine di tutte le cose. Sostenendo che non era nato in Grecia ma fosse di derivazione semitica».A un certo punto hai aperto una casa editrice.«Che tuttora opera. Poiesis nasce nel 1995. Il progetto era di aprirsi all’altra sponda del Mediterraneo.Ricordo che l’anno prima ero a Gerusalemme con una delegazione di poeti europei e arabi. Si celebravano gli accordi di Oslo del 1993. Yitzhak Rabin era il primo ministro israeliano e Yasser Arafat, il leader palestinese».Cosa prevedevano quegli accordi?«Il ritiro di Israele dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania e la nascita di un’autorità nazionale palestinese. Era un accordo difficile ma possibile, come riconobbe Shimon Peres allora Ministro degliesteri. Nessuno avrebbe potuto immaginare l’uccisione di Rabin. La sua morte, nel novembre del 1995, fece naufragare quella grande speranza. Oggi non posso accettare che Hamas rappresenti il popolo palestinese, allo stesso modo mi rifiuto di pensare che Netanyahu rappresenti Israele».Sei un editore politico?«Le mie scelte editoriali sono improntate al dialogo.Sono molto amico di Toni Maraini, per me è come una sorella. Quando tornò dal Marocco, dove aveva vissuto a lungo, immaginammo un tragitto culturale che rispecchiasse le diverse anime del Mediterraneo. Il punto più alto di quel percorso furono le “primavere arabe”. Nel 2011 pubblicai I giorni di piazza Tahir, la piazza nel cuore del Cairo, una cronaca avvincente di Mohamed Shoair che fu uno dei protagonisti di quella rivoluzione non violenta.Per un anno il terrorismo islamico ha taciuto. In quella lunga primavera ci fu l’opportunità di cambiare la storia del Mediterraneo. Ma così non è andata».Il Mediterraneo, dicevi, è sempre stato al centro dei tuoi interessi. Quando hai cominciato a occupartene?Nel 1983, con un festival di poesia che si svolgeva nel chiostro di San Benedetto a Conversano. Lì, per dieci anni, una folla di persone veniva ad ascoltare poeti provenienti dai vari paesi del Mediterraneo. Dal 1995 ho organizzato i “Seminari di marzo”, tra Alberobelloe Martina Franca. Venivano spesso Martin Bernal, l’autore diAtena nera, Serge Latouche e Predrag Matvejevi?, che aveva scritto Breviario Mediterraneo,un libro bellissimo, una specie di romanzo che idealmente completava il grande affresco che anni prima aveva disegnato Fernand Braudel».Ti senti più organizzatore culturale o poeta?«Le mie iniziative culturali le ho decise, mentre la poesia no. Non l’ho scelta. Si è imposta. Quello che un poeta può decidere è se stare dalla parte della distruzione del mondo o della sua rinascita. Qui c’è il contatto con la mia parte organizzativa. Se appartieni alla terra, quella terra la devi conoscere e restituire nelle sue diverse parti. In questo mi sento vicino, visto che prima ne hai citato il nome, a Rocco Scotellaro. Il che mi fa venire in mente un episodio».Quale?«Sono stato molto amico di Amelia Rosselli. Amico come si può esserlo di una persona diciamo umorale. Capitava che lei venisse al Festival di Poesia. E furono lunghe conversazioni. E intese. Credo che lei vedesse riflessa in me la figura di Rocco Scotellaro che, come sai, le segnò in profondità la vita».Il loro fu un rapporto esistenziale e poetico.«Si conobbero nel 1950 a Venezia, nel corso di un convegno sulla Resistenza. Non credo vi sia mai stato niente tra loro, solo una forte attrazione spirituale.Rocco era, come dire, il poeta che le aveva fatto scoprire l’anima arcaica del Sud. E un po’ le ricordavo questo aspetto dell’Italia, un paese che lei, per i frequenti soggiorni all’estero, conosceva poco. A volte andavo a trovarla a Roma. Mi parlava dei suoi incontri con Pasolini e Bazlen e della terapia che aveva intrapreso con Ernst Bernhard. Mi parlava del lutto mai risolto per la morte improvvisa di Scotellaro nel 1953. Una scomparsa che la gettò nella disperazione e la infragilì ulteriormente».Che impressione hai avuto di lei?«Di una donna straordinaria ma difficile. La sua poesia era come lei. La sua complessa struttura psichica, tortuosa e decentrata, diventava linguaggio nella sua testa. Se ripenso al suo “canto funebre” dedicato a Scotellaro vedo da un lato la complessità della lingua e dall’altro la complessità dei sentimenti di una donna fondamentalmente sola».Cosa hai pensato della sua morte?«Si gettò dal balcone del suo appartamento in Trastevere. a Roma. Era il 1996: appresi la notizia con sgomento, sebbene fosse prevedibile perché gli ultimi anni di Amelia furono terribili. Ma non mi piace pensare alla morte, alla violenza e al negativo che implica. L’essere umano è un’entità straordinaria mentre l’orrore nasce da chi ritiene che non siamo nulla. Noi siamo mistero. Chi pensa di ridurci al nulla non vuole bene al mondo».