Robinson, 28 aprile 2024
Biografia di Alfredo Panzini
Immaginate un “easy rider” in bicicletta compiuto agli inizi del ’900 da un professore di liceo, un lungo e lento viaggio da Milano fino a Bellaria sull’Adriatico (cinque giorni), su strade polverose ed evitando le città. Così comincia la Lanterna di Diogene (1907) di Alfredo Panzini: «l’undici luglio, alle ore due del pomeriggio, io varcavo finalmente, dall’alto della mia vecchia bicicletta, il vecchio dazio milanese di Porta Romana». C’è un’afa «ardente e greve», ma lui avverte nel cuore il «fresco maestrale della contentezza» e, come i protagonisti del film Easy rider, si sente «stanco della cerimonia ufficiale della vita» e invidia la libertà dei vagabondi. Il viaggio come terapia dell’anima. Ma chi era Panzini? Nato a Senigallia nel 1863, si trasferisce presto con la famiglia a Rimini, università a Bologna (Carducci come professore), poi docente a scuola, prima a Milano e infine a Roma al Mamiani. Si sposa con la pittrice Clelia Gabrielli. Le sue prove letterarie giovanili gli procurano varie collaborazioni giornalistiche (scriverà per tutta la vita su quotidiani e riviste). Proprio La lanterna di Diogene è il suo primo successo, cui seguono Le fiabe della virtù (1911), dedicate alla memoria del figlio Umberto, morto a dieci anni, innumerevoli romanzi, da Santippe nel 1914, Il padrone sono me nel 1922 e fino a La pulcella senza pulcellaggio nel 1929 e Il bacio di Lesbia nel 1937. Fondamentale è il Diario sentimentale della guerra (in due volumi, 1923), ma senza trascurare il Dizionario Moderno, alle cui varie edizioni lavora dal 1905 al 1923. Viene scoperto dalla critica tardivamente, e nonostante i giudizi negativi di Gramsci e di Croce, che pure gli riconosce una vena poetica, sarà apprezzato per la «sciolta eleganza dell’arte sua delicata» (Papini). Muore a Roma nel 1939.
Eterno “minore” della nostra letteratura, si potrebbe contrapporre a D’Annunzio (nacquero lo stesso anno!), come intuì l’amica Sibilla Aleramo. L’amico e maestro Renato Serra, parlando di lui, insiste sulla “schiettezza” e “sincerità”, schiettezza di un classicismo «che non è solo decenza della lingua» ma soprattutto «commozione non retorica delle grandi cose belle». Per uno scrittore la schiettezza è, anzitutto, un effetto retorico. Dunque: Panzini appare schietto, prima ancora di esserlo. Ma per apparire schietti un po’ bisogna pur esserlo. Nel Diario sentimentale della guerra e in tutta l’opera giornalistica e narrativa, Panzini ci mostra sempre, schiettamente, dove sta e come sta. In quegli anni D’Annunzio e Michelstaedter sono gli opposti estremismi di un’epoca innamorata dell’estremo, l’uno votato alla retorica e l’altro alla persuasione. Panzini se ne tiene lontano, anche solo per ragioni di carattere. Ammira la radicalità di Serra – che morirà nella Grande Guerra – ma sul piano esistenziale resta un moderato. In lui il tragico, un pensiero antidialettico – che non crede cioè nella ineluttabilità della sintesi – è mitigato dal buon senso, oltre che da una qualità educatissima della scrittura. Per avere il “contatto con il mondo”, non gli serve marciare insieme ad altri soldati verso una morte quasi certa, come Serra: gli basta girare per le osterie e i paesi. La sua lanterna di Diogene lo riporta sempre all’inizio, non risolve dubbi ed esitazioni. Serra aggiungeva che Panzini è «debole… sensitivo e ombroso». Questa ombrosa debolezza si rivela preziosa, perché è una resistenza fisiologica alla “forza” dei sistemi, al titanismo intellettuale che vuole disciplinare «questa illogica dolorosa cosa che è la vita». Mentre Panzini scriverà di Serra: «È persuasivo perché è profondo, arrendevole, umano».
Soffermiamoci su un aggettivo-chiave: Serra è persuasivo in quanto arrendevole. Somiglia a una postura taoista. È persuasivo perché non ti incalza con la logica, perché una verità che non fa nulla per affermarsi è irresistibile. A Mussolini presente a Rimini, per una delle tante cerimonie, con la piazza piena, Panzini fa sommessamente notare che nella grande scritta “Duce a noi” sul tetto della parete della piazza c’è un errore. «Quale?» chiede con qualche apprensione Mussolini. «Ci manca una virgola, duce. Bisogna scrivere: Duce, virgola, “a noi” vuole la virgola… l’ortografia, mi raccomando l’ortografia», risponde il lessicografo Panzini. Come Gadda è un uomo d’ordine che scopre di essere stato ingannato da una promessa falsa: l’ordine del fascismo è solo una simulazione teatrale mediocre, che nasconde disordine e arbitrio. A differenziare Panzini dal fascismo, cui pure aderì formalmente, è una virgola!
Quali gli anticorpi che Panzini ha saputo attivare? La “gelida ironia”, che sempre gli mostra “ciò che è più triste e vano”, un nichilismo sobrio, il naturale umorismo ( ha genialmente definito l’umorismo come “una forma di tristezza”); e poi l’amore genuino per la vita semplice, senza mai idealizzarla, l’intima adesione ad una natura ciclica – più grande della Storia umana – di cui probabilmente dovette parlare con Mircea Eliade, in visita al liceo Mamiani di Roma (dove Panzini insegnava) nel 1927. Eliade scrisse un articolo dove riconosce il valore di Panzini «nella scrittura, nella struttura della frase: viva, melodiosa, ritmica». In quel “ritmo” si raccoglie infatti la visione del mondo e la felicità di esistere di Panzini, il suo destino e l’intera sua biografia.