Domenicale, 28 aprile 2024
Sui tortellini
Il piatto più famoso ed emblematico della cucina mantovana sono i tortelli di zucca. Tuttavia se a Mantova il ripieno è ormai codificato – con amaretti e mostarda –, il problema è che all’interno della stessa provincia il piccolo contenitore di pasta all’uovo che qui chiamano tortello cambia di forma e anche di condimento: lo si può trovare condito con semplice burro, con salsa di pomodoro o addirittura con la salsiccia. Ma il vero dilemma è che i tortelli di zucca sono tipici anche di Ferrara (dove si chiamano cappellacci), di Parma, di Reggio Emilia, di Cremona, tutte province che confinano con quella di Mantova, e dove tradizionalmente si realizzano tortelli di zucca, che possono cambiare anche per pochi ingredienti, ma che diventano identitari – ognuno è pronto a giurare che il proprio è quello originale – e per i quali si è disposti a litigare. Perché, si sa: in Italia la cucina della mia contrada è sempre migliore di quella del vicino.
Ma dove sono i confini di una cucina locale? Per abbozzare una risposta a questa domanda complessa, prenderemo come esempio il caso abbastanza particolare della provincia di Mantova, che si colloca al confine con altre otto province, appartenenti a loro volta a tre regioni diverse, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Quindi, dove finisce la cucina mantovana e inizia quella veronese, bresciana o modenese, reggiana, parmense, cremonese, rovigotta e ferrarese? Si potrebbe sostenere che la cucina mantovana non esiste, in quanto il suo territorio è interamente composto da aree grigie dove le specificità locali si mescolano alle influenze delle cucine circostanti. Per altro, qualche esaltato sostenitore della mantovanità potrebbe giungere alla conclusione opposta, per cui otto cucine locali non sono altro che forme imbastardite dell’unica cucina originale, che ovviamente sarebbe quella mantovana. È evidente che di questo passo non si arriva da nessuna parte.
Bisogna abbandonare l’impostazione «campanilistica» o agiografica, quella per cui la cucina della mia contrada è per forza migliore di quella di tutte le altre contrade del mondo, ma soprattutto è diversa da ogni altra cucina possibile e immaginabile. Se si vuole raccontare e interpretare una cucina locale e individuarne individuarne i confini in maniera corretta, bisogna inserirla in un contesto più ampio e ricondurla all’interno di una classificazione dei sistemi alimentari che permetta di coglierne certamente le specificità, ma anche quegli elementi strutturali che non possono essere diversi da quelli dei modelli gastronomici vicini. La provincia di Mantova si trova al centro di una delle aree oggi tra le più ricche del mondo, la Pianura Padana, di conseguenza la sua cucina odierna non subisce le limitazioni della povertà, ma nel passato qui si ebbero periodi di grande sviluppo alternati a secoli di estrema arretratezza. Momenti nei quali la nobiltà locale era un modello di stile e di lusso anche a tavola, si pensi al periodo francese della dinastia Gonzaga, quando il cuoco bolognese Bartolomeo Stefani preparava le zampe di cappone con canditi e uva sultanina, oppure momenti nei quali le classi dominanti mostravano una chiusura culturale davvero deprimente, persino nel soddisfare un bisogno quotidiano come quello del cibo. Momenti nei quali anche i ceti più bassi della società potevano sperare di sfamarsi con una certa tranquillità e altri nei quali l’unica alternativa alla fame e alla malnutrizione era la fuga il più lontano possibile da questa terra ingrata. Per determinare i confini di una cucina locale, quindi, non ci si può limitare a seguire una narrazione cronologica, ma è necessario andare per temi, quindi per tipologia di alimenti. La semplice esposizione per periodi storici, dal Medioevo ai giorni nostri, impedirebbe di cogliere i reali elementi distintivi della cucina locale. Ma i confini di una cucina locale, indipendentemente dall’estensione che si vuole indagare, non possono essere nemmeno quelli amministrativi che nel tempo sono cambiati più volte, anche se molto spesso si tende a identificare i diversi modelli gastronomici o le singole ricette proprio con le ripartizioni politiche. Per cui si distinguono i tortellini alla bolognese da quelli modenesi o i vincisgrassi di Macerata da quelli di Ancona. Le pietanze travalicano i confini amministrativi, per cui andando per temi si può tentare di costruire una classificazione geografica e storica di alcune tipologie di piatti, non più provinciale, ma di un territorio. Si può così immaginare una vasta area del tortellino, che va dalla Romagna alla Bassa padana, all’interno della quale il piccolo contenitore di pasta all’uovo con il ripieno di carne assume diverse denominazioni (cappelletto, tortellino, agnolino, marubino ecc.), diverse forme e diverse modalità di chiusura. All’interno di questa area, quindi, potremo evidenziare le differenze locali e soprattutto le evoluzioni storiche della ricetta, della forma e delle modalità di cottura.
Non ha senso parlare di cucina lombarda, o emiliana, o veneta, ma di “area del tortello”, “zona del riso” e così via. Solo seguendo l’evoluzione di una singola tipologia di ricetta o l’uso di uno specifico prodotto si possono individuare i confini di una cucina, i quali sono per definizione mobili, come è mobile l’identità gastronomica di un territorio. Con buona pace dei tortelli di zucca mantovani.
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Confini
«Mappe», Touring Club italiano, pagg. 192, € 19,50. L’articolo che pubblichiamo è uno dei contributi della nuova rivista. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.