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 2024  aprile 28 Domenica calendario

La vera storia della cucina italiana

E se vi dicessero che la cucina italiana non esiste? Un’affermazione piuttosto spiazzante per il paese che notoriamente ha la migliore cucina del mondo. Una delle nostre poche certezze granitiche è che la gastronomia italiana affonda le sue radici nelle nebbie del passato e i piatti che mangiamo oggi sono nati secoli fa dalle mani di grandi cuochi o escogitati da abili contadini.
Oppure no.
Le convinzioni sulla cucina tradizionale si sgretolano davanti al libro di Alberto Grandi e Daniele Soffiati appena uscito per Mondadori intitolato, per l’appunto, La cucina italiana non esiste. Già autori del fortunato podcast DOI – Denominazione di Origine Inventata, riprendono molti degli argomenti affrontati al microfono, per dimostrare che la vera storia della nostra arte culinaria ha ben altre spiegazioni. L’idea di una cucina sostanzialmente immutata nei secoli, accompagnata dal mito dell’Italia come paese in cui si è sempre mangiato bene, è frutto di una narrazione nata nel secondo dopoguerra, quando gli italiani hanno migliorato decisamente le loro abitudini alimentari.
Certo, si possono individuare precedenti storici delle nostre specialità più famose, ma nella maggior parte dei casi erano completamente diverse e spesso riservate a una piccola élite di fortunati. La maggioranza degli italiani era costretto a un’alimentazione monotona e di bassa qualità.
I veri punti di svolta sono essenzialmente due, entrambi generati da una profondissima crisi sociale e alimentare. Il primo avviene a seguito della «grande depressione», che grossomodo va dal 1870 al 1900, e la conseguente emigrazione di massa degli italiani. Grazie al parziale spopolamento e ai soldi che arrivavano da chi lavorava all’estero –le cosiddette “rimesse”– il Paese è in grado di avviare un primo balzo industriale, seguito da un miglioramento delle condizioni alimentari. Il secondo è segnato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dal conseguente boom economico. In ogni caso la salvezza è arrivata sempre da molto lontano e ci ha portato a gravitare sempre di più nell’orbita degli Stati Uniti.
Ma è soprattutto dagli anni settanta che prende corpo una narrazione anti-industriale a favore del lavoro artigianale, visto come baluardo delle tradizioni in pericolo. In campo gastronomico la polarizzazione è ancora più forte che altrove e trova i propri paladini in grandi comunicatori come Luigi Veronelli che sfoderano battute come «il peggior vino del contadino è migliore del miglior vino industriale». Questo pensiero, mirato a esaltare le tradizioni contadine e le radici millenarie della nostra alimentazione, bollava come sbagliata ogni possibile innovazione, colpevole di incrinare un’ideale perfezione già raggiunta. Un modello nostalgico e conservatore che ha fornito la base per un’identità italiana completamente antistorica, pescando a piene mani in miti e leggende del passato.
La visione partorita negli anni del boom economico ha creato l’illusione di un eterno presente popolato di nonne-chef a cui siamo ancora oggi attaccati e ci impedisce di valutare la traiettoria che ci ha portato a essere così apprezzati a livello mondiale. Perché, mettiamolo in chiaro, se c’è una cosa che nessuno mette in dubbio – nemmeno Alberto Grandi e Daniele Soffiati – è l’elevata qualità delle nostre materie prime e la diffusa sapienza gastronomica.
La storia però non è quella che ci siamo raccontati finora. Solo per fare un esempio: pensiamo di essere sempre stati grandi mangiatori di pasta, uno degli alimenti che contraddistingue maggiormente la nostra dieta. Ma se guardiamo ai dati, alla vigilia della Grande Guerra in Italia se ne producevano 100 milioni di chili all’anno, mentre oggi arriviamo a 3 miliardi e 600 milioni di chili. Il conto è presto fatto e anche se sottraiamo tutta la parte destinata all’esportazione, risulta che di pasta ne mangiavamo abbastanza poca, sicuramente molta meno di adesso.
Questo è solo uno dei tanti esempi contenuti nel libro che aiutano a mettere nella giusta prospettiva il nostro immaginario gastronomico, ma ce ne sono molti altri. La carbonara? È un piatto americano inventato a Roma; le fettuccine Alfredo? Altro che italian sounding, è il più antico condimento per la pasta che si conosca; la pizza? Quella che mangiamo oggi è più vicina a quella che facevano i nostri compatrioti negli Usa che a Napoli nell’Ottocento. Per non parlare delle bufale che circolano riguardo Carlo Magno o Caterina de’ Medici che avrebbero assaggiato, inventato o esportato praticamente la metà di ciò che si mangia oggi in Italia. Nulla più che miti inventati a cavallo tra la pedagogia nazionale e il marketing territoriale.
Oggi ci dipingiamo come strenui difensori delle tradizioni quando qualcuno mette la panna nella carbonara o l’ananas sulla pizza, ma la verità è che siamo grandi consumatori di hot-dog e i primi divoratori di sushi in Europa.
Il problema messo in luce dal libro è che siamo vittime delle nostre stesse bugie. Hanno avuto l’enorme merito di coagulare il consenso nazionale, plasmando un’identità comune, ma anche l’effetto collaterale di idealizzare un passato che non è mai esistito.
Quindi è tutta un’illusione? E le nonne? E la cucina di una volta? E i cibi sani di campagna? Non vi preoccupate, nessuno vi toccherà i vostri piatti preferiti e potrete continuare a goderveli in santa pace.
Se però volete vedere la realtà con occhi diversi, questo è il libro che fa per voi. Però attenti, è come la pillola rossa di Matrix: se la prendete lo fate a vostro rischio e pericolo. Dopo, niente sarà più come prima.
Alberto Grandi
e Daniele Soffiati
La cucina italiana non esiste.
Bugie e falsi miti sui prodotti e i piatti cosiddetti tipici
Mondadori, pagg. 276, €19