Domenicale, 28 aprile 2024
Biografia di Pino Pascali
«Io son come un serpente/ogni anno cambio pelle/la mia pelle non la butto/ma con essa faccio tutto/Quel che ho fatto di recente/ già da tempo mi repelle». In questa filastrocca (in realtà una vera dichiarazione di poetica consegnataci però, come piaceva a lui, in forma ironica) Pino Pascali condensa l’essenza del suo lavoro di artista eclettico e inafferrabile, sempre diverso da sé eppure sempre riconoscibile. Difficile dare ordine a una materia così composita senza tradire lo spirito libero dell’artista: ci è riuscito Mark Godfrey, curatore della retrospettiva di Fondazione Prada, che ha realizzato una mostra esemplare, fondata su un impianto scientifico robusto e illuminato da una vera novità di sguardo, ricca di opere miliari e – tutt’altro che secondario – anche spettacolare.
1935 e 1968 sono le date estreme di Pascali: nato a Bari, formato dal 1955 all’Accademia di Belle Arti di Roma sotto la guida di un maestro aperto al nuovo come Toti Scialoja, a Roma Pascali muore, in sella a una moto, a 32 anni, mentre è in corso la Biennale di Venezia dove ha la sala personale: la consacrazione tanto attesa per lui che aveva esordito, con successo, come scenografo e pubblicitario per la televisione ma che poi si era impegnato sempre più nell’arte. Alla Biennale Pascali ricevette, postumo, il Gran Premio.
Quella sala, con le quattro personali più importanti che l’avevano preceduta, è stata “riattivata” da Mark Godfrey nel Podium di Fondazione Prada, con una scelta che da un lato gli consente di scandire senza forzature una produzione tanto variegata e dall’altro gli permette di evidenziare la precoce consapevolezza di Pascali (non a caso, un pubblicitario) del peso che, nella ricezione di una mostra, avevano la pratica espositiva e la sua documentazione fotografica. Ed è così che irrompe lo spettacolo, proprio com’era stato programmato dall’artista: negli ambienti delle sue mostre, ricostruiti nelle stesse dimensioni degli spazi originali, sono presentate le opere esposte allora, nell’esatta disposizione di allora. Ecco le tele estroflesse con le enormi, voluttuose e rossissime labbra di Billie Holiday e il busto di Maternità (il ventre gonfiato da un palloncino posto dietro la tela dipinta a smalto), e l’evocazione del Colosseo, realizzato con un tessuto di spugna dipinto e teso su centine di legno, tutte esposte nel 1965, nella sua prima personale, alla galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis a Roma. Solo un anno dopo, da Sperone a Torino, le armi: vere armi? Ready made? Per nulla. In realtà assemblaggi di tubi di scarto, ruote, legni, componenti di auto, del tutto innocui ma da lui composti nelle forme di armi micidiali, sullo sfondo del falso siluro Colomba della pace (ancora il suo umorismo, qui decisamente noir): un’opera, purtroppo, sinistramente attuale.
Di lì a poco, nella galleria L’Attico di Fabio Sargentini a Roma, un’altra geniale piroetta, con le «false sculture» realizzate – da aeromodellista qual era – con tessuto teso su centine: opere leggerissime ma evocative di animali poderosi (perfino un dinosauro: bonario però, “a riposo”), del tutto spaesanti per la materia imprevista di cui sono fatte. In realtà, una riflessione sofisticata sugli statuti della scultura, da lui porta però con la consueta levità attraverso questi oggetti spiazzanti e – ciò che non guasta – bellissimi. Poi, sempre all’Attico, nel 1968 ecco le finte botole dei Lavori in corso e la serie spettacolare delle opere primordiali (un ponte sospeso, una trappola, delle liane...) fatte con la lana d’acciaio che si usava in cucina per pulire le padelle: quella che Warhol celebrava con le Brillo Box. E, salite le scale, i lavori (pelosi questi, di falsa pelliccia) esposti in Biennale. Materiali eterodossi, i suoi (dagli scovoli giganti per le tubature delle opere-calembour Bachi da setola al micidiale eternit di Campi arati, alla pelliccia sintetica) accompagnati, negli spazi successivi, dalle pubblicità che sui magazine di allora ne celebravano l’efficacia e la novità.
È nella Galleria Sud che ci s’imbatte poi nelle fotografie d’autore con cui volle sempre documentare le sue opere e le performance che inscenava con esse (famosissime quella di Claudio Abate della capriola sotto all’enorme ragno di pelliccetta sintetica Vedova blu e l’altra, del suo percorso saltellante tra le vasche piene di un’acqua più o meno intensamente azzurra di 32 mq di mare circa. O quella di Ugo Mulas in cui imita il suo Cavalletto), cui si aggiunge il film SKMP2, realizzato nei suoi ultimi mesi con Luca Maria Patella. Nella Galleria Nord, infine, una parata spettacolare riassume con opere sue e dei geniali compagni di strada Boetti, Bonalumi, Ceroli, Fabro, Gilardi, Kounellis, Mattiacci, Piacentino, Pistoletto, le collettive cui partecipò. Superfluo aggiungere: una mostra da non perdere.