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 2024  aprile 28 Domenica calendario

Biografia di Patrizia Vicinelli

Intervistato da Jonida Prifti, ineffabile performer avant-punk d’origine albanese (che dell’attuale e tambureggiante Vicinelli-renaissance può dirsi antesignana, con l’e-book La poesia e l’azione pubblicato dieci anni fa da Onyx), ricorda Nanni Balestrini che una sera, a Milano, Patrizia Vicinelli entrò in scena a cavallo (chissà se prima o dopo i ben più celebri exploit di Jannis Kounellis alla galleria dell’Attico, e dei Magazzini Criminali al mattatoio di Riccione…): memorabile anche perché – aggiungeva Nanni con un sorriso – l’animale, forse per la tensione del battesimo sulle scene, s’imbizzarrì, s’impennò (non sappiamo se così disarcionando la performer in posa equestre) e infine lasciò sul palco un’enorme cacca fumante. Nel suo piglio epico, non meno che nell’esito desublimante (così magari mitigando i toni lutulenti delle sue cultrici più esagitate), pare questa un’allegoria della vicenda non meno che tragica della scrittrice nata a Bologna nel 1943 e morta male (di Aids), a meno di cinquant’anni, nel 1991.
La renaissance è stata scandita negli ultimi anni da una quantità di riprese, performance, concerti, incontri di studio e testimonianza, nonché dalla mostra documentaria Chi ha paura di Patrizia Vicinelli, curata da Luca Lo Pinto e Lisa Andreani al Macro di Roma alla fine del ’21, e ora anche da una seconda e agguerrita monografia critica di Marzia D’Amico (Figlie del sé. L’epica rivoluzionaria di Amelia Rosselli e Patrizia Vicinelli, Mimesis, pagg. 243 ill. col., € 22). Ma i prodromi risalgono al 2009, quando Cecilia Bello Minciacchi firmava una ben più ampia raccolta di testi, insuperata per cure filologiche e generosità d’impaginato (Non sempre ricordano, uscita nella perenta collana fuoriformato de Le Lettere), accompagnata da un dvd con un’antologia di performance curata da Daniela Rossi.
Già, perché il paradosso di Vicinelli è quello di un’opera che sin dall’inizio eccede qualsiasi supporto cartaceo chiamato a veicolarla. Tutti i suoi profili biografici cominciano con l’esordio folgorante: a ventitré anni, al penultimo convegno del Gruppo 63 a La Spezia nel ’66, quando il suo scatenarsi in scena impressionò Kathy Berberian. Ma le prime pubblicazioni risalivano a quattro anni prima, pronubi i profeti della «poesia totale», Emilio Villa e Adriano Spatola: su riviste e fogli d’oltranzistico layout messi a dura prova dalle sue partiture esplosivamente parolibere. L’esito di questa prima stagione “concreta” è à, a. A, che Roberto Lerici pubblica come registrazione fonografica, nel ’66 allegata a «Marcatré», e l’anno dopo in un prodigioso fuoriformato di 20 x 25 centimetri. L’apice dell’impubblicabilità è il poema visivo Apotheosys of a schizoid woman scritto in Marocco nel ’70, in forma di collage «a strati» multicolori: l’edizione Argolibri ne fornisce preziosi specimina a colori, ma dal formato forzatamente penalizzante.
A questi esordi così promettenti non corrispose però un prosieguo altrettanto roseo. Il ritorno all’ordine della cultura post-avanguardista fu tutt’uno col dérèglement pervicacemente perseguito da chi (per dirla con Rosselli) continuava a sperimentare, ma – ben più pericolosamente – con la vita. «La memoria è una trama, è un trauma», si legge in un suo collage; e infatti tutti gli scritti successivi – torturati da stesure ribattute, pubblicazioni parziali, catastrofiche perdite e riscoperte fortunose – sono in sostanza rielaborazioni di schegge d’un vissuto che oggi è leggenda, ma allora fu dannazione: al fianco di altri spericolati come Aldo Braibanti, Tonino De Bernardi, Gianfranco Baruchello, Claudio Caligari e i suoi compagni di vita Alberto Grifi e Gianni Castagnoli, che variamente hanno documentato in video, fra tardi anni 60 e metà 80, l’incessante performatività (sia detto fra molte virgolette) della viaggiatrice incessante, dell’interprete impareggiabile di testi propri e altrui, e – massimo degli scandali – dell’eroinomane impenitente.
Proprio la droga, dopo essere rocambolescamente sfuggita una prima volta alla cattura per due grammi di hashish trovatile addosso dieci anni prima, la porta in carcere nel ’77. A Rebibbia passa quasi un anno, e lì mette in scena con e per le con-detenute il dramma Cenerentola (ne parlano tutti i giornali ma verrà pubblicato solo, postumo, da Niva Lorenzini). È il punto di massima tangenza fra la sua scrittura e le tematiche “femministe” (definizione a lei sgradita) che oggi, si capisce, la fanno riscoprire dalle sue lettrici più giovani: la protagonista è una tipica ragazza degli anni 70, desiderosa di un’emancipazione alla quale non pare affatto pronta; in suo soccorso interviene una compagna più esperta che porta il nome astronomico di Cassiopea, e che sarà per lei davvero una stella polare. La riscrittura di Perrault ne capovolge la morale: non interverrà un principe azzurro (maschio) a salvare Cenerentola, bensì la solidarietà delle cosessuate. (Per inciso: sebbene dalla scrittura assai semplificata – per il pubblico d’eccezione cui era destinata – l’allegoria di questo percorso di liberazione è ben più efficace della assai più nota Università di Rebibbia della già sottovalutata, ma ora assai sopravvalutata, Goliarda Sapienza.)
Fatta parentesi del provocatorio «romanzo» Messmer – tutto sesso e droga ma senza troppo rock ’n’ roll, alternate take al femminile dei coevi Altri libertini di Tondelli – e dell’incompiuto opus ultimum, il sapienziale poema I fondamenti dell’essere, il capolavoro di Vicinelli resta per me il «poema epico» Non sempre ricordano, scritto fra il ’77 e l’85. Anche questo era stato «concepito come opera di scrittura a mano» e, ricorda lei, «è stato poi trascritto in composizione tipografica», ma è in effetti – dai tempi dell’opera prima – l’unica scrittura di Vicinelli a raggiungere, lei viva, l’edizione in volume. L’epica è soprattutto quella della memoria, s’è detto, in forma di trauma (al modo dell’amato Dino Campana che nel «paesaggio italiano», diceva, «collocava dei ricordi»).
D’esito diseguale, come il resto dell’opera di Vicinelli: a tratti irritante per l’agitarsi s-composto a tutte maiuscole, ma per lo più è tumultuosa in modo a sua volta memorabile questa atroce psicomachia nella quale l’autrice si rappresenta, quasi vindice erinni tarantiniana avanti lettera, come «samuray» con la «splendente fiammeggiante / scimitarra alla mano» (dove nell’icona della spada, attante ricorrente della sua drammaturgia, non sfugga l’allusione tossica). Votata alla catastrofe, certo, ma sempre a fronte alta e in «MODO HEROICO»: «STRETTA SALDAMENTE / L’IMPUGNATURA ALLA MANO. // NON AVANZERANNO PIÙ DI UN SOLO PASSO».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Patrizia Vicinelli
La Nott’e’ l Giorno. L’opera poetica
A cura di Roberta Bisogno
e Fabio Orecchini
Argolibri, pagg. 254, € 16