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 2024  maggio 02 Giovedì calendario

Cinquant’anni fa il divorzio

Cinquant’anni fa, il 12 e il 13 maggio 1974, si tenne per la prima volta in Italia un referendum abrogativo. Ambienti cattolici conservatori avevano raccolto le firme per cancellare la legge Fortuna-Baslini sul divorzio approvata nel dicembre 1970, ma il risultato li deluse: quasi il 60 per cento degli elettori votò No, respingendo la loro proposta. A mezzo secolo di distanza abbiamo esaminato il contesto politico e le conseguenze di quella scelta con tre docenti di storia: Lucia Bonfreschi dell’Università Roma Tre; Guido Crainz, già professore dell’Università di Teramo; Daniela Saresella della Statale di Milano.
I protagonisti della battaglia per il divorzio sono i radicali di Marco Pannella, che si mobilitano per la legge e poi non esitano, diversamente da altre forze laiche, di fronte alla sfida del referendum. Quella minoranza sparuta era più in sintonia con i cittadini di partiti ben più consistenti?
LUCIA BONFRESCHI — I radicali mostrano sicuramente una maggiore consapevolezza delle trasformazioni in corso nella società italiana. Avevano fondato il 12 dicembre 1965 la Lega italiana per il divorzio (Lid), che aveva l’obiettivo di sostenere dall’esterno del Parlamento la proposta di legge in materia presentata dal deputato socialista Loris Fortuna. Un’iniziativa che aveva caratteri inediti rispetto alla tradizione politica del nostro Paese.
In che senso?
LUCIA BONFRESCHI — A differenza di quanto avveniva per esempio nel mondo anglosassone, in Italia era un fatto nuovo che si creasse un’associazione per premere sui legislatori in vista di uno scopo specifico. Inoltre la Lid mirava a promuovere un ampio schieramento laico, in grado di scavalcare i confini dei singoli partiti e soprattutto di sollecitare la partecipazione diretta dei cittadini. Nasce così un nuovo modo di fare politica: non più solo raduni di piazza e raccolte di firme, oltre agli scioperi della fame, ma anche la richiesta, rivolta alla gente, di inviare lettere e cartoline o di telefonare ai parlamentari e ai partiti per esortarli ad approvare la legge sul divorzio. I radicali sono persuasi che il Paese sia maturo per esprimere un orientamento laico.

In effetti nel 1970 il divorzio viene introdotto, ma a quel punto i cattolici più legati alla tradizione si attivano per abolirlo. Come reagiscono Pannella e i suoi?
LUCIA BONFRESCHI — In un primo tempo ritengono che la raccolta delle firme portata avanti da una parte del mondo cattolico sia solo uno strumento per indurre le Camere a cambiare la legge in senso restrittivo. Alla fine del 1971 appare però ormai chiaro che il referendum è destinato a svolgersi, anche se poi sarà rimandato per via dello scioglimento anticipato del Parlamento nel 1972. A quel punto i radicali accettano il terreno di scontro scelto dai loro avversari e si battono perché la consultazione popolare si tenga. Rispetto al rischio che la legge Fortuna-Baslini venga stravolta dai partiti, preferiscono andare al voto nella convinzione di poter vincere.
Vedevano giusto.
LUCIA BONFRESCHI — Già prima che si chiudano le urne referendarie nel maggio 1974 Pannella fa stampare migliaia di copie di «Liberazione», il giornale radicale, in cui si annuncia il successo divorzista. Dal suo punto di vista l’affermazione del No è una vittoria storica, che spazza via l’immagine di un Paese arroccato nella difesa di una religione di Stato e permette di ipotizzare la nascita di uno schieramento laico e libertario capace di diventare maggioranza politica.
Anche gli antidivorzisti dal canto loro erano convinti di vincere. E ottennero l’appoggio dell’allora segretario democristiano Amintore Fanfani. Avevano perso il polso della società italiana?
GUIDO CRAINZ — Certamente pesò il fatto che nel 1971 vennero raccolte in poco tempo moltissime firme per l’abrogazione della legge, un milione e 370 mila, senza grandi clamori. Per molti cattolici fu una sorpresa che autorizzava un certo ottimismo sull’esito del referendum. Va anche ricordato che dal 1972 in Parlamento non c’era più una maggioranza divorzista, sia per l’avanzata del Msi neofascista, sia per la grande dispersione di voti a sinistra determinata dal fatto che il Psiup non aveva ottenuto seggi.
Si poteva sperare in una rivincita restauratrice?
GUIDO CRAINZ — In realtà il mondo legato alla Chiesa aveva registrato una profondissima erosione. Tra il 1962 e il 1970 l’Azione cattolica era passata da tre milioni e mezzo di iscritti a un milione e 600 mila. Era nato il dissenso religioso, le Acli e la Cisl avevano preso le distanze dalla Democrazia cristiana. E poi i comizi antidivorzisti di Fanfani, soprattutto al Sud, rispecchiavano una visione arretratissima e pessimista, secondo cui l’istituzione famigliare si sarebbe sfasciata una volta venuta meno l’indissolubilità del matrimonio.
Era una posizione votata alla sconfitta?
GUIDO CRAINZ — Era in aperto contrasto con le trasformazioni in corso nell’Italia reale, quella che la Lega per il divorzio aveva portato allo scoperto sin dalla sua prima manifestazione nel novembre 1966 in piazza del Popolo a Roma. Basti pensare al silenzioso allontanamento degli stessi credenti dalle indicazioni della Chiesa in materia di contraccezione, che non era stato frenato, ma semmai accelerato dall’enciclica conservatrice Humanae Vitae emanata da Papa Paolo VI nel 1968.
DANIELA SARESELLA — Il mondo cattolico non era mai stato totalmente omogeneo. Ma è certo che dagli anni Sessanta, dopo il Concilio Vaticano II, la situazione cambia radicalmente. E il Vaticano non sembra esserne cosciente, tanto è vero che interviene con forza per ostacolare l’iter della legge Fortuna-Baslini. Così se il leader della Dc Fanfani, nel dicembre 1973, decide di cavalcare la campagna per il Sì al referendum, nel partito si manifestano forti perplessità, per esempio da parte di Aldo Moro e di Carlo Donat-Cattin, sull’opportunità di andare allo scontro sul divorzio. Poi c’è un punto da sottolineare: il ruolo che ebbe Comunione e Liberazione.
Come si comportò?
DANIELA SARESELLA — Cl era nata da poco, tra il 1969 e il 1970. Raccoglieva intorno a don Luigi Giussani ciò che era rimasto del movimento di Gioventù studentesca, imploso per l’adesione di molti suoi esponenti alla contestazione del Sessantotto. Il battesimo del fuoco ciellino, politico e religioso, è appunto la ferma e determinata militanza per l’abrogazione del divorzio. Sul versante opposto si schierano gli esponenti del dissenso cattolico, vicini alla sinistra anche extraparlamentare.
Ci fu inoltre un documento di cattolici democratici per il No al referendum.
DANIELA SARESELLA — Sottoscrivono un appello in difesa della legge, il 17 febbraio 1974, personalità come Pietro Scoppola, Paolo Brezzi, Lorenzo Bedeschi, Giuseppe Alberigo, Raniero La Valle, Carlo Bo, Adriana Zarri, David Maria Turoldo. Al centro della loro visione ci sono il primato della coscienza e il rispetto verso gli altri. Dice Scoppola: il mio è un matrimonio cristiano e lo considero indissolubile, ma non posso imporre questa concezione a chi non la condivide. Alcuni cattolici per il No saranno poi eletti come indipendenti nelle liste comuniste, altri seguiranno strade diverse. Per tutti quella scelta è l’inizio di un percorso rilevante.

Il Pci cercò a lungo di evitare il referendum sul divorzio. Per quali ragioni?
LUCIA BONFRESCHI — Nella visione comunista i diritti civili si collocavano in secondo piano, perché erano visti come istanze appartenenti a una cultura borghese costantemente svalutata dal partito. Ritengo però che abbia pesato soprattutto la preoccupazione di non rompere in modo clamoroso con il fronte cattolico. Dai verbali della direzione di Botteghe Oscure risulta che alcuni membri si aprono alle posizioni divorziste, ma il segretario Enrico Berlinguer privilegia sempre l’esigenza di tenere aperto il canale del dialogo con la Dc.
GUIDO CRAINZ — Nel Pci c’è qualche preoccupazione per il legame di parte della sua base con un’idea tradizionale della famiglia, ma è molto marginale. Conta ben di più un ritardo storico sui diritti civili. Nel 1964 un seminario organizzato dal partito invitò la dirigenza ad aprire una battaglia per cambiare il diritto di famiglia e introdurre il divorzio. Ma sulla rivista «Rinascita» l’articolo di Giuseppe Chiarante che dava conto di quelle posizioni venne pubblicato assieme a una lunga nota nella quale il segretario comunista Palmiro Togliatti osservava che le norme più avanzate in materia vigenti all’estero, e in Italia «ancora inconcepibili», non avevano comunque mutato la natura di fondo della famiglia.
E la questione del rapporto con la Dc?
GUIDO CRAINZ — Nel 1971 Berlinguer lo dice subito: il referendum imporrebbe un cambio radicale della linea del partito. D’altronde, dopo il Sessantotto e l’«autunno caldo» sindacale, siamo in un clima segnato dall’avanzata della destra missina alle amministrative, dalla rivolta di Reggio Calabria egemonizzata dai neofascisti, dalle rivelazioni sul tentato golpe Borghese. Quindi Berlinguer si chiede come fare progredire il Paese senza suscitare una reazione antidemocratica. E al Congresso del 1972 fornisce la sua risposta: occorre promuovere una collaborazione tra le grandi componenti popolari del Paese, comunista, socialista e cattolica. Di fatto anticipa quella che sarà la strategia del compromesso storico.
Il referendum diventa uno scoglio da aggirare?
GUIDO CRAINZ — Il Pci tenta disperatamente fino all’ultimo di trovare un accordo parlamentare per modificare la legge ed evitare il referendum, nonostante voci contrarie come Nilde Iotti, Umberto Terracini e anche un dirigente da cui non ce lo si aspetterebbe, Alessandro Natta, che difende il divorzio come una conquista importante. Eppure Berlinguer nel luglio 1973, quando si capisce ormai che lo scontro può essere vinto, afferma ancora che il referendum, a prescindere dal risultato, sarebbe dannoso e muterebbe in peggio il quadro politico. Perfino ai primi di marzo del 1974 il leader comunista cerca di rimandare l’avvio ufficiale della campagna per il No, suscitando le critiche di Giorgio Amendola.

Però poi il partito s’impegna seriamente.
GUIDO CRAINZ — Alla fine il Pci mette in campo la sua grande capacità di mobilitazione e la vittoria del No mostra quanto fossero sbagliate le previsioni pessimistiche. All’indomani del voto la Dc appare la portavoce di un’Italia che non c’è più e il Pci diventa un punto di riferimento credibile per un elettorato più vasto.
DANIELA SARESELLA — Nel Pci la questione del divorzio era fonte d’imbarazzo anche per via delle vicende personali dei suoi massimi dirigenti. Luigi Longo, segretario dal 1964 al 1972, aveva divorziato dalla moglie Teresa Noce sfruttando la legislazione della Repubblica di San Marino, mentre Togliatti aveva abbandonato la consorte Rita Montagnana per Nilde Iotti. La morale comunista in fatto di famiglia non era molto distante da quella cattolica, ma si faceva un’eccezione per i grandi condottieri. D’altronde proprio Iotti è una delle persone che si battono di più perché il Pci difenda il divorzio.
C’era una maggiore sensibilità femminile?
DANIELA SARESELLA — Senza dubbio: basta andare a verificare che cosa scriveva già negli anni Sessanta «Noi donne», rivista di area comunista. È la fase in cui la sinistra storica comincia a confrontarsi con il nuovo femminismo. Però Berlinguer esita. Vede la Dc, o almeno una parte di essa, come interlocutrice per la salvaguardia della democrazia. Ritiene quindi che il referendum creerà una spaccatura tale da mettere in difficoltà la prospettiva del compromesso storico e aumentare il rischio autoritario. È peraltro un timore condiviso da Moro e da altri esponenti democristiani.
Il successo del No determina un deciso spostamento a sinistra. Come mai la Dc, nonostante la sconfitta, riesce a mantenere la sua egemonia politica?
LUCIA BONFRESCHI — Alle elezioni regionali del 1975 e alle politiche del 1976 si registra una forte avanzata del Pci, che arriva a superare il 34 per cento dei voti. Bisogna però aggiungere che la Dc resta il primo partito e nel 1976 conferma i precedenti livelli di consenso intorno al 38 per cento. Il processo di secolarizzazione dell’Italia progredisce, ma piuttosto lentamente. Inoltre i democristiani possono sempre contare sulla rendita derivante da lunghi anni di potere quasi incontrastato.
E il ruolo della Dc come diga anticomunista?
LUCIA BONFRESCHI — Conta moltissimo. Pensiamo per esempio a Indro Montanelli, che nel 1976 esorta i suoi lettori a votare Dc «turandosi il naso». Nonostante la distensione degli anni Settanta, il problema della collocazione internazionale dell’Italia nella guerra fredda resta centrale. E rende impossibile trasformare l’eterogeneo schieramento divorzista in una coalizione capace di produrre un’alternativa di governo.
La vittoria del No è meno rilevante di quanto apparve all’epoca?
LUCIA BONFRESCHI — Non causa un immediato terremoto politico, ma è una svolta cruciale, perché segnala l’avvio di processi che porteranno al distacco dell’elettorato dalla Dc: un fenomeno che poi si toccherà con mano negli anni successivi, in primo luogo con l’affermazione delle Leghe.
GUIDO CRAINZ — L’egemonia democristiana esce comunque indebolita, tanto è vero che negli anni Ottanta avremo le presidenze del Consiglio laiche di Giovanni Spadolini e di Bettino Craxi. Si ridimensiona anche la funzione anticomunista svolta dalla Dc, per via del logoramento subito dal Pci dopo il fallimento del compromesso storico. Fino al 1976 i comunisti avevano sempre guadagnato voti, mentre dal 1979 in poi alle elezioni politiche arretreranno costantemente. Sarà soprattutto Craxi a mettere in difficoltà lo Scudo crociato.
Tuttavia la Dc resiste fino a Mani pulite.
GUIDO CRAINZ — Possiamo adottare la metafora che Robert Musil nel romanzo L’uomo senza qualità usa per descrivere il declinante Impero austro-ungarico. Dagli anni Ottanta in poi la Dc è come quelle stelle di cui vediamo tuttora la luce anche se non esistono più da migliaia di anni. D’altronde il declino democristiano è un aspetto della crisi più generale che riguarda in quel periodo tutti i partiti di massa novecenteschi.
DANIELA SARESELLA — Il referendum del 1974 incrina l’unità politica dei cattolici. Già nel 1972 si era presentata alle politiche una lista d’ispirazione cristiana concorrente della Dc, il Movimento politico dei lavoratori di Livio Labor, che però aveva raccolto pochi consensi. Il successo del No sul divorzio ha un rilievo ben maggiore e apre la strada all’esperienza dei cattolici indipendenti di sinistra eletti nelle liste del Pci.
Però nel 1976 la Dc tiene le posizioni.
DANIELA SARESELLA — È vero, ma bisogna aggiungere che nel 1978 viene rapito e assassinato Moro. In conseguenza di quel trauma, che le sottrae il suo leader più accorto e lungimirante, la Dc smarrisce la rotta e più tardi perderà anche la guida del governo a vantaggio prima di Spadolini e poi di Craxi. Leoluca Orlando invece indicherà l’omicidio per mano mafiosa del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, nel gennaio 1980, come la svolta che aveva indotto molti cattolici a ritenere che la Democrazia cristiana non fosse più riformabile. Comunque sia, il 1974 segna l’inizio di un allontanamento tra il mondo cattolico e la Dc. Un fenomeno che comincia a manifestarsi con i primi successi delle Leghe, proprio nelle zone di più solido radicamento cattolico, e che poi esploderà nei primi anni Novanta.
Però, se il voto del 1974 provoca un afflusso di cattolici verso sinistra, i consensi che lo Scudo crociato perde a vantaggio della Lega si dirigono a destra.
LUCIA BONFRESCHI — Con il voto sul divorzio va in crisi l’idea della Dc come espressione politica unitaria del mondo cattolico. La stessa scelta dello strumento referendario ha un effetto dirompente, perché chiama i cittadini, compresi i credenti, a esprimersi al di là della mediazione parlamentare. A quel punto diventa molto difficile ricomporre l’unità dei cattolici. L’emergere delle Leghe negli anni Ottanta ha a che fare con la crisi di rappresentanza della Dc e con processi di lungo periodo che investono la società italiana.
Secondo Pier Paolo Pasolini la vittoria del No, lungi dall’essere una svolta di progresso, denota l’affermazione di una mentalità individualista destinata a dissolvere la solidarietà sociale. Che ne pensate?
GUIDO CRAINZ — Si schierarono per il divorzio non solo le riviste laiche più impegnate, «L’Espresso» e «Abc», ma anche i grandi quotidiani e i settimanali femminili e popolari, ad esempio «Grand Hotel». Apparve chiaro che l’Italia era cambiata. Ma Pasolini pose allora un interrogativo: la laicità coincide con il progressismo? Già un anno prima sul «Corriere» aveva commentato la pubblicità dei jeans Jesus, che combinava riferimento religioso e richiamo sessuale mostrando un sedere femminile accompagnato dal detto evangelico «chi mi ama mi segua». A suo dire era un sintomo dell’avvento di un laicismo che non si misurava più con la religione.

Il No al referendum confermava quella deriva?
GUIDO CRAINZ — L’esito del voto rafforza il giudizio di Pasolini, che insiste nel denunciare l’ideologia edonistica del consumo, che a suo avviso determina una mutazione antropologica degli italiani. Era un punto di vista parziale, ma coglieva un aspetto vero del successo divorzista, largamente ignorato dagli altri osservatori.
DANIELA SARESELLA — La crisi dell’unità politica dei cattolici, alla fine degli anni Ottanta, si manifesta su due fronti. Oltre all’ascesa della Lega, fenomeno localista e conservatore, c’è l’esperienza della Rete di Orlando, che guarda a sinistra e, con l’appoggio del gesuita Bartolomeo Sorge, aggrega personalità estranee al mondo cattolico come Nando dalla Chiesa e Diego Novelli.
E l’analisi di Pasolini?
DANIELA SARESELLA — La lotta per i diritti individuali non è necessariamente alternativa alla solidarietà sociale. E poi già prima del 1970 i ricchi potevano disfarsi del loro matrimonio attraverso l’annullamento della Sacra Rota o con altri espedienti. Invece la legge Fortuna-Baslini offre la possibilità di sciogliere il vincolo a tutte le classi sociali. Tuttavia, a proposito di Pasolini, richiamerei un intervento di Scoppola risalente al 1981, all’indomani del successivo referendum sull’aborto che lo aveva visto schierarsi contro la legge 194 sull’interruzione di gravidanza. Lo storico cattolico nota che gli elettori hanno rifiutato sia l’abrogazione dell’aborto sia quella dell’ergastolo, oggetto di un altro contemporaneo quesito. A suo avviso ciò dimostra che tra gli italiani non prevale una visione libertaria, ma la volontà di tutelare i propri diritti individuali.
La solidarietà sociale passa in secondo piano?
DANIELA SARESELLA — A conferma del giudizio di Scoppola c’è il fatto che la sinistra oggi pare privilegiare le esigenze del singolo rispetto agli interessi collettivi. In questo senso gli stimoli dei radicali si sono imposti, ma hanno comportato una disattenzione verso il tema delle diseguaglianze che ha indebolito la presa della sinistra sulle zone del Paese più emarginate e periferiche.
LUCIA BONFRESCHI — Il giudizio di Pasolini è molto duro. Ritengo che nei burrascosi anni Settanta fossero altri i campanelli d’allarme sulla difficile crescita della società civile. Il voto del 1974 resta un momento di emancipazione degli italiani dall’ipoteca della Chiesa, e conferma l’estensione a tutti di un diritto, quello di sciogliere il matrimonio, che prima apparteneva a pochi. Inoltre lo scontro sul divorzio segna l’esordio del referendum, uno strumento che permette ai cittadini di esprimersi sul terreno politico scavalcando i partiti. Si possono dare valutazioni diverse sulle conseguenze, ma certamente dobbiamo considerarlo un evento centrale da molti punti di vista.