La Lettura, 2 maggio 2024
Tante volte i buddhisti restano cristiani
«Io, chiaramente, vengo da una famiglia cattolica, come molte. Fin da piccola sono stata abituata ad andare in chiesa. Purtroppo, appunto, c’è stato un momento in cui io mi sono fatta delle domande che erano un po’ più profonde e nella Chiesa non ho trovato una grande risposta. Quindi, per un po’, diciamo, mi sono staccata dalla religione, proprio da praticante, pur continuando comunque a credere. Fino a che, poi, non sono capitata qua». La quarantanovenne che parla è una dei circa 350 mila buddhisti che nell’Italia ormai multireligiosa rappresentano un’alternativa diversa da ogni altra, ancora in gran parte ignota nella sua reale fisionomia. A quasi 40 anni dalla sua costituzione come ente federatore delle tante espressioni del buddhismo e a 12 anni dall’intesa con lo Stato, l’Unione buddhista italiana ha promosso una ricerca che consente di conoscere meglio i buddhisti italiani, ma anche che cosa pensano del buddhismo gli italiani non buddhisti.
La ricerca, finanziata con l’8 per mille destinato all’Unione, è stata commissionata alle università di Padova e Torino. Tra 2022 e 2023 un gruppo di ricercatori guidato dai sociologi Giuseppe Giordan, Stefania Palmisano e PierLuigi Zoccatelli ha intervistato 57 responsabili dei 64 centri affiliati all’Unione, 137 partecipanti alle loro attività, 51 buddhisti non appartenenti all’Unione e 130 non buddhisti. Un’ulteriore quota di 515 partecipanti alle attività dei centri ha risposto a un questionario. Il Rapporto Il Buddhismo in Italia. Una ricerca sull’Unione Buddhista Italiana è stato presentato il mese scorso in un incontro presso la Biblioteca del Senato.
Raggiunto da «la Lettura», il responsabile della ricerca Giuseppe Giordan dell’Università di Padova sottolinea i tratti del buddhismo emersi dalla ricerca. Vi è anzitutto la fluidità dell’autodefinizione e dell’appartenenza: meno di un buddhista su 5 definisce il buddhismo come una religione, mentre 7 buddhisti su 10 non descrivono la loro adesione in termini di conversione e lasciano intendere che sia possibile combinare il buddhismo con altre appartenenze, in particolare con il cristianesimo. Il 90% del campione, del resto, è formato da battezzati cattolici e per molti il buddhismo ha addirittura consentito un recupero del cristianesimo. «I contenuti del buddhismo – dichiara una cinquantanovenne – hanno ulteriormente acuito in me la spiritualità cristiana». A partire dal buddhismo zen, dichiara un altro intervistato settantaduenne, «ho cominciato a capire la religione cattolica». Per altri praticanti, invece, la differenza è netta: «Se in altre religioni tipo quella cattolica la salvezza te la dà qualcun altro, purché tu creda e abbia fede – dice una sessantaduenne – in realtà nel buddhismo nessuno ti dà niente». «Ti danno gli strumenti – prosegue – però sei tu che devi essere in primo luogo impegnato».
Come nota Giordan, il buddhismo intercetta la domanda di un’esperienza religiosa aperta, dove «non è richiesta una appartenenza esclusiva», perché «non è più l’istituzione che legittima la credenza». Come si legge nel Rapporto, «una larga maggioranza degli intervistati ritiene che ci siano verità importanti da trovare in tutte le religioni e una percentuale praticamente irrilevante è convinta che ci sia solamente un’unica vera religione»; di qui, ancora con le parole del Rapporto, un buddhismo dalla «religiosità inclusiva e ibrida» che sembra poter far presa su fette significative della società italiana.
Il cristianesimo ortodosso e l’islam, le due grandi novità quantitative del paesaggio religioso italiano, sono marcatamente d’origine immigrata: per un milione di cittadini complessivamente riconducibili a esse, si contano nel Paese circa 3 milioni di ortodossi e musulmani non cittadini. Tra i buddhisti, invece, prevalgono gli italiani, che raggiungono il 90% degli intervistati. Le comunità non italiane, soprattutto srilankesi di tradizione theravada, sono molto significative da un punto di vista culturale per il buddhismo italiano, ma largamente minoritarie.
Dei 350 mila buddhisti censiti dalla ricerca, circa la metà è affiliata all’Unione buddhista italiana, caratterizzata fin dall’inizio dalla pluralità di scuole, lignaggi e sensibilità. È tutta diversa – per la sua identità esclusiva e per l’isolamento rispetto al restante buddhismo – la Soka Gakkai, l’altra confessione buddhista con cui lo Stato ha firmato un’intesa nel 2015. A essa aderisce quasi interamente la metà del buddhismo italiano non riconducibile all’Unione. La ricerca, però, si è concentrata sull’altra metà. Se per gli intervistati il buddhismo è più interessante come filosofia che come religione, il presidente dell’Unione, Filippo Scianna, sentito da «la Lettura», non si allarma. Fatto salvo «l’elemento trascendente», non certo negato dal buddhismo vissuto come filosofia, non vi è in proposito una posizione ufficiale dell’Unione; semmai, riflette il presidente, è da adeguare la comunicazione dei centri alle esigenze di «una società sempre più laicizzata». «Il punto finale è essere felici», spiega Filippo Scianna. È questo «carattere soteriologico» che non va snaturato, relativo alla «cessazione della sofferenza»: l’importante è «che non si arrivi a recitare il mantra per trovare parcheggio».
Ancor meno si allarma, il presidente dell’Unione, davanti alla coesistenza di buddhismo e cristianesimo. La differenza con il cristianesimo, spiega, non è etica, ma riguarda «la visione della realtà», perché «nel buddhismo non c’è quell’immanenza, quella fede in un principio creatore e giudice». Detto questo, e premesso che la sua posizione è del tutto personale e non rappresentativa dell’Unione, il «praticante buddhista» Filippo Scianna continua «a tenere il Vangelo sul tavolino» e «a entrare in chiesa». Alla sua «storia» non vuole «abdicare»: «Sarebbe una violenza, un’operazione impossibile e nemmeno auspicabile». Ancor meno si scompone, il presidente, se gli si fa notare che, secondo la ricerca, a chi lo percepisce da fuori, attraverso la moda dello yoga e della meditazione o il cinema de Il piccolo Buddha e di Sette anni in Tibet, il buddhismo può apparire vago, indefinito, forse superficiale. «Questo – risponde – riguarda tutti, tutte le tradizioni. Non siamo spaventati»; e richiama «il compito dei centri» di ricordare «che il buddhismo non è “volemose bene”, che ci sono delle regole».
Filippo Scianna sottolinea soddisfatto come dalla ricerca emerga un buddhismo che «sa agire, sa sporcarsi le mani», contro lo stereotipo del buddhista seduto sul cuscino e separato dalle cose. Il «distacco», chiarisce il presidente, riguarda «un modo di vedere le cose, non le cose», da cui la priorità per l’Unione di un buddhismo «attivo, impegnato, che entra nelle cose».
È duplice, allora, la questione della diversità buddhista in Italia, posta in parte dalla diversità dei buddhisti rispetto agli altri credenti e ai non credenti, e in parte dalla diversità interna, tra i buddhisti stessi. «Ho conosciuto – dice un intervistato quarantaduenne – dirigenti d’azienda, dirigenti di multinazionali, psicopatici, casalinghe tristi, pensionate prossime alla morte spaventate, fricchettoni, appassionati di fitness che vogliono farsi un’esperienza non troppo impegnativa, fanatici religiosi, fanatici atei». Oltre l’iperbole del catalogo, l’uomo coglie infine la questione: «Non penso esista un profilo di buddhista; fortunatamente per ora non esiste e speriamo vada avanti così».