La Lettura, 2 maggio 2024
Parla James Ellroy
James Ellroy, losangelino classe 1948, è il maestro indiscusso del romanzo noir. Celebre per la «tetralogia di Los Angeles» — Dalia nera, Il grande nulla, L.A. Confidential, White Jazz — e per la «trilogia americana» — American Tabloid, Sei pezzi da mille, Il sangue è randagio — tornerà in libreria il 7 maggio col nuovo romanzo Gli incantatori, tradotto da Alfredo Colitto per Einaudi Stile libero: ambientato nel 1962, all’indomani della morte di Marilyn Monroe, avrà come protagonista l’investigatore privato Freddy Otash, già al centro del precedente romanzo Panico e comparso come comprimario in diverse opere precedenti.
James Ellroy, negli «Incantatori» ci fa incontrare di nuovo Freddy Otash, e ne siamo felici. Ma parrebbe un po’ cambiato rispetto a «Panico».
«Eh, eh… Sapete, io lo conoscevo, il vero Freddy Otash. Era un piccoletto malvagio, un tipo davvero losco. Un bieco. Non mi piaceva per niente. Ma mi interessavano gli ambienti in cui girava, quindi mi dissi che potevo anche inventare il mio, di Freddy Otash. E l’ho fatto. Almeno tre volte. Perché ce ne sono diversi, di Freddy Otash, a dire la verità. C’è quello della “trilogia americana”, dove è un cospiratore a tutti gli effetti. Poi c’è quello di Panico, che in fondo è una commedia, e quindi anche il personaggio si è adattato in tal senso, è diventato più simpatico, a tratti quasi comico. Gli incantatori, invece, è un romanzo molto serio, come lo sarà il suo seguito, a cui sto già lavorando; Otash è di nuovo protagonista, ma ho dovuto ridisegnarlo per adattarlo al nuovo clima. In generale possiamo dire che a suon di interventi il mio Otash, anzi i miei Otash, sono diventati del tutto finzionali».
Nei suoi romanzi è costante la commistione tra personaggi reali, personaggi inventati, e personaggi di finzione ispirati a figure reali.
«È vero, e non vale solo per i personaggi. I miei romanzi sono sempre una miscela di realtà e finzione, ma dopo che sono usciti lascio ai lettori le loro valutazioni. Se qualcuno, a una presentazione, mi chiede se un certo fatto o un certo personaggio è vero, in genere rifiuto di rispondere. Io credo che il mio compito, in quanto romanziere, sia far credere che le cose siano vere: una volta che il lettore è dentro al libro, tutto deve sembrargli vero, e sarebbe sciocco andare a dirgli “questo sì, questo no”. Detto questo, possiamo considerare Gli incantatori un libro di finzione, anche se include personaggi storici e altre figure minori realmente esistite, come lo stesso Otash. Intendiamoci, è un fatto storico accertato che Jimmy Hoffa avesse ingaggiato Freddy Otash per indagare sui rapporti tra Marilyn Monroe e John Fitzgerald Kennedy, ma la verità è che non si trattava di un’operazione in grande stile come quella che mostro io nel romanzo. In fondo, anche se lavoro con la storia, trovo che la maggior parte delle volte la storia sia noiosa. E poi, diciamolo, non mi piace mica troppo fare ricerca: una volta trovate le basi, preferisco inventare. Ad esempio, nel romanzo che sto scrivendo, e che sarà a tutti gli effetti il seguito de Gli incantatori, Otash si ritroverà contro i comunisti, e delle basi storiche anche qui ci sono, ma ho già in mente una linea che se ne distacca, perché se ogni volta parto dalla storia reale, la verità è che alla prima opportunità che vedo di fare fiction, mi ci butto. Quello che cerco, quello che faccio quando faccio la mia ricerca, sono informazioni singole su qualche aspetto della vicenda, che si prestino a fare da base per una costruzione finzionale. Ed è precisamente ciò che avviene ne Gli incantatori».
Lei lo ha definito un romanzo «modernista».
«Credo che lo sia, per ragioni strutturali e di montaggio, che i lettori potranno verificare, ma in generale, anche al di là delle questioni prettamente letterarie, a me piace proprio l’estetica modernista e cerco di trasmetterla anche in romanzi ambientati in tutt’altro periodo, come lo stesso Gli incantatori, che si svolge nei primi anni Sessanta. Parlo della prima onda di modernismo, quella degli anni Venti, del Bauhaus… Quanto mi piace quell’estetica! Mi fa immaginare un mondo filante, più lineare e dinamico. Anche l’estetica americana, negli anni Venti, era più bella, non solo quella europea. Tutto era più bello».
Torniamo alla struttura «modernista» del romanzo.
«Tornando alla struttura de Gli incantatori, il romanzo è in prima persona, ma la voce narrante è quella di un alcolista e tossicodipendente, con tutto ciò che questo comporta, sia in termini di affidabilità del narratore che del modo in cui percepisce la realtà: è una coscienza spezzata, umorale, che fa salti temporali e di percezione, e in cui però il lettore deve calarsi, così da seguire l’indagine. In fondo Gli incantatori, oltre che modernista, è un detective novel a tutti gli effetti: il protagonista va in giro, cerca, indaga, interroga, intervista, si infila nelle case di nascosto…». (Ride).
Ma è vero che anche lei lo faceva? Cioè: entrare nelle case altrui.
«Eccome! Da ragazzino era una mia ossessione, un vero e proprio vizio. In particolare m’infiltravo nelle case delle ragazze di cui mi innamoravo, e su cui immancabilmente mi fissavo. Non era difficile forzare una finestra o una porta di servizio… Entravo nelle case, sì, e andavo subito alla ricerca della biancheria. Poi, certo, se trovavo qualche banconota me la fregavo, e se ero fortunato pure i sonniferi o qualche altro farmaco con cui potevo alterare un po’ la coscienza… Ma l’obiettivo erano sempre le mutandine, le cercavo e le annusavo… Ero un ladro di mutandine, sì! Ma ero anche un sentimentale, perché erano sempre le mutande di ragazze su cui mi ero fissato, mica di gente a caso».
L’innamoramento che diventa fissazione è un suo tema ricorrente…
«L’amore può diventare fissazione, sì, e spesso per la persona sbagliata. È così anche nella vita, no? Mi interessano molto gli uomini che s’innamorano della donna sbagliata, e ancora di più l’inverso: donne forti che si ritrovano addosso le attenzioni di uomini cattivi, schifosi. Spesso le relazioni, nei miei libri, sono violente, abusive. Si pensi anche a quelle dello stesso Freddy Otash. Le donne le spia, le fotografa col teleobiettivo, mette loro le cimici in casa per ascoltarle a loro insaputa… È intrusivo, e molto curioso. Proprio come me».
E poi c’è quella donna là, Marilyn.
«Marilyn Monroe mi piaceva. Intendo che mi piaceva come attrice e come donna. Non mi piaceva il modo in cui si comportava. Penso fosse un po’ maligna. Anzi, per me era pure stupida: quindi, nell’immaginarla a modo mio, mi sono comportato di conseguenza. Chiaramente poi Marylin Monroe porta con sé JFK, e anche lui il suo posto nell’immaginario ce l’ha e bisogna farci i conti. Ma non mi interessano troppo le teorie del complotto attorno alla sua uccisione, tutte ’ste chiacchiere, il deep state… Bah, una noia mortale. Poi è un tema sul quale è stato detto molto, e pure bene, come ad esempio in un libro come Libra di Don DeLillo, quindi… sì, lo uso nei miei romanzi, ma senza metterlo al centro, più come “sponda”».
Richard Nixon invece la interessa, se è vero che il seguito de «Gli incantatori» sarà incentrato su di lui.
«Mi interessa molto, moltissimo. Si noti, non tanto il Nixon presidente degli Stati Uniti, con lo scandalo del Watergate e tutto: anche quello è straraccontato. A me interessa il Nixon che corse come governatore della California, proprio nel 1962. Il Nixon che perse e che venne dato per finito, ma poi diventò presidente degli Stati Uniti. Nixon era un uomo molto solo. Molto, molto solo. Come me. Io penso a Nixon e mi rapporto alla sua solitudine. Ci penso e mi commuove. E se un personaggio mi commuove, è un buon inizio. In fondo il problema principale è sempre trovare qualcosa che mi interessi. Così tante cose non mi interessano più…».
Ad esempio?
«La politica non mi interessa. Neanche quella di Nixon, no. Le teorie del complotto, come ho detto, mi annoiano a morte. Anche l’uccisione di mia madre ormai mi annoia, non è più un’ossessione. Il cinema non mi interessa per niente. No, neanche quello tratto dai miei libri. Fanno schifo, i film tratti dai miei libri. Sono brutti. Mi annoiano. La tv non mi interessa, a parte quando trasmette la boxe. La boxe mi interessa».
Cos’altro la interessa?
«Mi interessa il modo in cui i luoghi influenzano le persone. Come un certo periodo storico influenza le persone. Come il sesso influenza le persone. Mi interessano ancora i criminali e i poliziotti. Mi interessano le procedure del lavoro d’indagine. Mi interessa un certo tipo di donna, che è poi quella che cerco di ricreare ogni volta nei miei romanzi. E su tutto m’interessa il passato. Non quello vero. Il passato immaginario, il ricordo del passato. Io sono sempre vissuto nel passato, ecco la verità. Quando ero un ragazzino ero sempre solo, vivevo in una terribile solitudine, e mi rifugiavo nelle fotografie delle copie della rivista Life che trovavo in casa. Scappavo, letteralmente scappavo, in questo passato immaginario, immaginato. Oppure guardavo i documentari, e accadeva la stessa cosa. Oggi penso molto al passato di Los Angeles. È parecchio tempo che non ci vivo; in effetti ci vado solo per le presentazioni, quando esce un nuovo libro. Ma mi piace tornarci con la mente. Nella Los Angeles del passato, certo».
Leggendo «Gli incantatori» si direbbe che continui a interessarle anche la relazione tra le luci della ribalta e ciò che si muove nel buio.
«Eh sì, eh sì: dove la luce finisce c’è un mondo secondario, sotterraneo, di cui nessuno parla troppo volentieri. Nessuno a parte i romanzieri. Il mondo del crimine non è nascosto chissà dove: sta subito dietro a quello che vediamo normalmente. Queste non sono teorie del complotto, sono fatti. Di certo un mondo sotterraneo del genere c’è ancora, ma a me, di nuovo, interessa quello del passato. Nel 1962 la luce era molto forte e quindi l’oscurità era altrettanto profonda. Io avevo solo quattordici anni a quei tempi, non potevo guardare nel buio, ma quella gente esisteva, agiva, viveva, amava, uccideva. Io non scrivo per trovare risposte agli enigmi della storia o alle domande che si fa la gente su questo o quel fatto, questo o quel periodo. Io scrivo per rispondere a me stesso, alla mia fissazione per il passato e allo specifico enigma (di tempo, luogo e “nodo morale”) che pongo a me stesso ogni volta che decido di scrivere un romanzo».
Si dice che questa passione per il passato si rifletta anche nella sua vita.
«Totalmente. Rifiuto in modo integrale l’ipermoderno. Non ho il cellulare, non ho internet. Se qualcosa è proprio importante, la mia ex moglie mi stampa l’email in questione e me la passa. E non solo non ho internet: non ho neanche il computer. Se proprio lo volete sapere, non ho nemmeno una macchina da scrivere. Scrivo a mano. I miei strumenti di lavoro sono una sedia, un tavolo e una penna. Ho un telefono di bachelite, col cavo. E sarà così per il resto della mia vita. Non mi interessa aggiornarmi; mi interessa non distrarmi. Mi interessa fare il mio lavoro come l’ho sempre fatto e senza chissà che pretesa. I libri non cambiano il mondo. In questo la penso in modo molto diverso da Dashiell Hammett, che, ok, è il mio punto di riferimento letterario, ma per me era anche un po’ tonto, del resto era un marxista… In realtà non mi interessa neanche sapere cosa ne pensi la gente, dei miei libri. Mi piace incontrare i lettori, mi piace anche starli a sentire, a patto che non mi assillino con teorie da imbecilli; vi dirò, non vedo l’ora di venire in Italia a parlare de Gli incantatori e vedere che faccia hanno i miei lettori italiani, ma alla fine, insomma, che ognuno pensi quello che gli pare»