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 2024  maggio 02 Giovedì calendario

Come si conciliano (se si conciliano) capitalismo e democrazia

Forse si sta rompendo l’equilibrio virtuoso tra economia e politica su cui si basa il modello occidentale. Questa almeno è la preoccupazione manifestata da Martin Wolf, co-direttore del «Financial Times», nel libro La crisi del capitalismo democratico (Einaudi), Ne abbiamo approfondito le tesi con l’autore.
MAURIZIO FERRERA — Capitalismo e democrazia sono guidati da logiche diverse. Il primo si fonda sulla ricerca dell’utilità individuale, la concorrenza, la selezione basata sui meccanismi di mercato. La democrazia si fonda sull’eguaglianza, l’inclusione, la partecipazione di tutti alle decisioni collettive. Nella seconda metà del XX secolo, la democrazia (e il welfare) hanno «addomesticato» il capitalismo, conservandone però il dinamismo, creatore di ricchezza. Soprattutto all’interno dell’Europa, questo matrimonio felice ha prodotto prosperità e pace. Ma oggi è entrato in una crisi che sembra profonda. Perché?
MARTIN WOLF — Capitalismo e democrazia sono sistemi «opposti ma complementari». Possono combinarsi in modo virtuoso, ma anche danneggiarsi a vicenda. La democrazia liberale ha bisogno dell’economia di mercato. Ma se quest’ultima è percepita come ingiusta, ad esempio perché crea troppe diseguaglianze, le basi sociali della democrazia si erodono, crescono frustrazione e risentimento: entrambi terreno fertile per involuzioni autoritarie.
MAURIZIO FERRERA — Lei sostiene che in alcuni contesti – a cominciare da quello americano – il capitalismo è diventato un sistema predatorio.
MARTIN WOLF — Ci sono due modi per fare soldi. Il primo è quello che io chiamo universalistico: si producono beni e servizi e si compete per soddisfare le preferenze dei consumatori, remunerando adeguatamente i lavoratori che producono. Il secondo modo è quello, appunto, predatorio: si formano monopoli che distorcono la concorrenza, catturano privilegi regolativi, estraggono rendite. L’economia di mercato di tipo universalistico è un fenomeno abbastanza recente, il frutto delle leggi anti-trust inventate, non a caso, dai regimi liberaldemocratici. La globalizzazione e la rivoluzione tecnologica hanno tuttavia aperto nuovi spazi per forme di capitalismo predatorio. Si è così formata una classe di plutocrati che esercita una enorme influenza politica sui governi.
MAURIZIO FERRERA — Questa trasformazione del capitalismo e la conseguente crescita delle diseguaglianze rappresentano dunque una seria minaccia per la democrazia. Vi sono però altri processi, endogeni al sistema democratico, che ne stanno inceppando il funzionamento. Pensiamo alla degenerazione della sfera pubblica, al ruolo crescente della demagogia, al decadimento del concetto di «verità» nel mondo delle fake news.
MARTIN WOLF — La democrazia presuppone che un corpo di cittadini indipendenti scelga in modo ragionato i propri leader, sulla base dei loro programmi. Ciò richiede una robusta ecologia dell’informazione, indipendente dalla politica. Nella seconda metà del Novecento la soluzione fu la creazione di servizi pubblici radio-televisivi, e di un mercato regolato della comunicazione privata. Con la diffusione di internet e dei social media, l’ecologia dell’informazione è radicalmente cambiata. Sono venuti meno i vincoli e gli incentivi a dire la verità, si usano algoritmi per diffondere contenuti ingannevoli e così si sgretola la concezione condivisa della realtà. Con il progresso dell’Intelligenza artificiale la situazione è destinata a peggiorare. Si tratta davvero di una sfida enorme per il funzionamento della democrazia.

MAURIZIO FERRERA — Un’altra grande sfida viene dall’esterno, dall’affermazione di quello che lei chiama capitalismo totalitario alla cinese. La democrazia non può durare senza il capitalismo di mercato (ben regolato). Ma il capitalismo può funzionare senza la democrazia? Quanto è stabile il sistema ibrido cinese?
MARTIN WOLF — Domanda di importanza epocale. Per usare la formula di Marx, l’attuale sistema cinese è percorso da profonde contraddizioni. Xi Jinping ha reso la Cina un Paese sempre più prospero. La principale protagonista della crescita economica è stata una élite istruita, spesso formata nelle università dell’Occidente e comunque esposta ai suoi valori. Questi nuovi e dinamici imprenditori capitalisti mal sopportano il peso soffocante del partito unico. Il capitalismo ha bisogno della certezza del diritto. Sennò dilagano le frodi, la corruzione e il clientelismo. Finora il regime di Xi è riuscito a nascondere tensioni e contraddizioni sotto il tappeto della crescita e di un benessere diffuso come mai prima. La Cina è un Paese dalle immense risorse, è quindi possibile che il regime si mantenga stabile a lungo. Ma le contraddizioni latenti non spariranno. Gli scenari sono perciò due. Una evoluzione della Cina verso il modello sudcoreano o taiwanese, oppure una deflagrazione in stile sovietico, che avrebbe conseguenze dirompenti a livello globale.
MAURIZIO FERRERA — Il primo dei due scenari sarebbe in un certo senso la strada seguita dal capitalismo occidentale. L’espansione della borghesia originò una crescente domanda di apertura, diritti, partecipazione, aprendo la strada al capitalismo democratico e del benessere. Come può l’Occidente favorire questo scenario anche in Cina e arginare il secondo?
MARTIN WOLF — Va evitata una nuova «guerra fredda» con Pechino. La via più promettente è quella di accompagnare la crescita di quell’immenso Paese, evitando di isolarlo dai mercati. Certo, dobbiamo difendere la nostra sicurezza: sul piano economico e tecnologico, ma anche su quello politico, contrastando infiltrazioni e propaganda. Tuttavia l’Occidente non può rinchiudersi nella propria cittadella, deve favorire lo sviluppo di tutti, trovare nuove modalità di governance dell’economia globale. Anche per far fronte all’altra sfida enorme, quella del mutamento climatico.
MAURIZIO FERRERA — Tutto ciò dipenderà in misura rilevante dagli sviluppi interni degli Stati Uniti. Nel suo libro lei usa parole molto dure nei confronti di Donald Trump. Lo definisce «un populista, istintivamente autoritario e nazionalista… senza il carattere, l’intelligenza e le conoscenze necessari per governare una grande Repubblica democratica». La sua salita al potere ha rappresentato un «preoccupante fallimento della democrazia più importante del mondo». Così come, si può aggiungere, la sua perdurante influenza sul Partito repubblicano dopo il 2020. Come è stato possibile? Come ha potuto il Grand Old Party arrendersi all’egemonia di un leader così demagogico?
MARTIN WOLF — Bisogna tener presenti tre fattori. Il primo risale agli anni Sessanta, quando i repubblicani compresero che l’elettorato bianco del Sud, tradizionalmente democratico, era diventato contendibile. Nixon orchestrò la formazione di una nuova coalizione tra l’élite conservatrice del Nord Est e quella bianca del Sud. Poi ci fu l’introduzione delle primarie a livello federale, nei primi anni Settanta, che sottrassero la scelta dei candidati alle consorterie di partito. Le convention si trasformarono gradualmente in teatri per la potenziale affermazione di leader demagogici. Il secondo fattore è stato l’avanzata del capitalismo predatorio, con la sua capacità di influenzare la politica tramite il finanziamento di campagne elettorali sempre più costose. Per allargare il proprio elettorato, al Partito repubblicano serviva una strategia. Che fu trovata – terzo fattore – sobillando gli elettori scontenti per la crisi economica e l’immigrazione, la cultura woke e così via. I mezzi di comunicazione conservatori e i social media sono stati il veicolo per raggiungere e mobilitare questi elettori. Trump è la personificazione della nuova alleanza fra plutocrazia e populismo. Che una volta conquistato il potere legifera a favore dei grandi monopoli e degli iper-ricchi.
MAURIZIO FERRERA — Una sindrome non dissimile da quella che negli anni Trenta portò ai fascismi europei.
MARTIN WOLF — Esatto, e l’Europa di oggi non è certo immune da questa sindrome.
MAURIZIO FERRERA — Trump vincerà le prossime elezioni?
MARTIN WOLF — Gli Stati Uniti sono oggi un Paese fortemente diviso. Lo zoccolo a favore di Trump vale circa il 30 per cento. Poi c’è una fetta significativa di repubblicani moderati. Senza contare gli indecisi, i due campi, repubblicano e democratico, sono più o meno pari.
MAURIZIO FERRERA — Nel libro lei suggerisce di ritornare, modernizzandoli, ai principi del New Deal sanciti da Franklin D. Roosevelt nel 1941: un tenore di vita in crescita, ampiamente condiviso e sostenibile; buoni impieghi per chi può ed è pronto a lavorare; uguaglianza di opportunità; sicurezza per chi ha bisogno; fine dei privilegi per pochi. Mi sembra che Joe Biden abbia mosso diversi passi in questa direzione, senza però ottenere grandi risultati sul piano del consenso.
MARTIN WOLF — Si, è vero. Anche grazie alle misure di Biden, l’economia americana va molto bene, la gente sta meglio. Eppure molti elettori non se ne rendono conto, credono alle menzogne populiste, è come se vivessero in «bolle» di realtà alternativa, soprattutto in alcuni degli Stati piccoli e periferici. Ricordiamo che la Costituzione americana premia questi Stati nella distribuzione dei voti elettorali.

MAURIZIO FERRERA — Sembra un vicolo cieco.
MARTIN WOLF — Anche se sono per natura pessimista, non posso arrendermi all’idea che, alla fine, la forza della realtà non riesca a vincere. Significherebbe l’impossibilità della democrazia. Per fortuna il cambiamento generazionale gioca a nostro favore: gli elettori più giovani sono meno sensibili alle sirene demagogiche.
MAURIZIO FERRERA — Un’ultima parola sul progetto europeo.
MARTIN WOLF — Molte delle dinamiche di cui abbiamo parlato sono in atto anche in Europa, anche in Paesi dove non ce lo saremmo aspettato, come la Svezia. Assisteremo probabilmente a una nuova affermazione delle forze sovraniste e populiste nelle prossime elezioni europee. Invece di pensare a come far avanzare il processo di integrazione, i leader democratici dovranno concentrarsi nel contrastare chi vuole tornare indietro. In Europa come negli Stati Uniti, la prospettiva è fosca. Si tratta però di una battaglia cruciale per il futuro stesso della civiltà occidentale. Per questo non posso non essere almeno un po’ ottimista.