La Lettura, 2 maggio 2024
Sulla Nona di Beethoven (da mettere il 7 maggio)
L’immagine è potente: centinaia di fazzoletti bianchi, sventolati all’unisono, per far arrivare a Beethoven – ormai completamente sordo – qualcosa che assomigliasse a un applauso. Era il 7 maggio 1824 – due secoli fa esatti – e, nella capitale dell’Impero, il Theater am Kärntnertor era affollatissimo. Si eseguiva per la prima volta la sua Nona sinfonia. La trepidazione era alle stelle. Che cosa si era inventato a Vienna, questa volta, quello che era considerato il più grande compositore di tutta Europa?
Per capire la dimensione di questa curiosità bisogna immergersi nel magma emotivo di quegli anni, un’affascinante fusione di individualismo e slanci collettivi, di culto della singolarità e desiderio di comunione. Il Romanticismo stava cancellando le abitudini e le procedure del Classicismo, quando i compositori inventavano musica gradevole, chiara, facile da seguire, e gli ascoltatori, in sala da concerto, ne godevano serenamente, insieme, felici di condividere un linguaggio che sembrava parlare a tutti nello stesso modo. Adesso, a partire dai primi anni dell’Ottocento chi scriveva musica era chiamato a esprimere la propria soggettività e lo avrebbe fatto sempre di più (pensate a Robert Schumann, a Hector Berlioz, a Franz Liszt), inventandosi un linguaggio proprio, autonomo, personale, e chiedendo al pubblico di seguirlo.
Non era così banale stare dietro ai compositori, e non lo era in particolare con la musica di Ludwig van Beethoven. Nel corso del tempo il suo stile aveva attraversato trasformazioni radicali e da quello più amabile, rassicurante, piacevolmente erede della musica di Joseph Haydn e di Wolfgang Amadeus Mozart, si era rinvigorito con gesti eroici, titanici, sino a sfociare, negli ultimi anni di vita del Maestro, in una serie di ribaltamenti che avevano sconvolto le abitudini degli ascoltatori. Le melodie avevano accentuato la loro tendenza a frammentarsi, disponendosi in agglomerati che alternavano violentemente acuto e grave, «colombe e coccodrilli», per usare l’espressione di Giuseppe Cambini, un critico dell’epoca. Saltavano di palo in frasca anche le armonie, che talora si faticava a ricondurre al consueto contesto della musica tonale. E si spezzavano drammaticamente le scansioni ritmiche, costringendo il pubblico a sospendere la rassicurante pratica del seguire il tempo battendo il piede a terra.
Se i compositori, Beethoven in testa, seguivano ciascuno una propria logica, anche gli ascoltatori stavano scoprendo che la musica parlava a ognuno in modo individuale. Certo, si ascoltavano i concerti rimanendo fisicamente riuniti in uno stesso luogo; ma il cogliere, l’assimilare, il gioire o il ribellarsi a quanto arrivava alle orecchie erano questioni soggettive. Tante erano le teste e altrettante le interpretazioni, le reazioni, le idee. Per questo, quando Beethoven cominciò a pensare che le sue partiture, così straordinariamente uniche, proprio perché si rivolgevano a ciascuno stavano parlando a tutti, l’idea risultò immediatamente convincente. I suoi seguaci, da subito devoti, appassionati, combattivi, la diffusero in modo efficacissimo. E l’emozione di ascoltare una musica che generava un senso di collettività spontanea, che non imponeva un credo, una fede, ma toccava le corde umane più profonde, e le toccava al mondo intero, diventò irresistibile, partitura dopo partitura, concerto dopo concerto.
Così un gigantesco sforzo collettivo portò a cogliere le ultime pagine di Beethoven, a partire dalla Nona, con un entusiasmo apparentemente irragionevole, che cancellava quello con cui si doveva fare i conti – la stravaganza di inserire le voci in un brano tradizionalmente strumentale, il procedere a scatti dell’ultimo movimento, lo stesso concepire una partitura che durava il doppio del consueto – e accettava tutte queste stramberie come bellissime, ovvie, perfette.
Oggi che l’Inno alla gioia, dal finale della Nona (una poesia di Friedrich Schiller pubblicata nel 1786), è diventato una delle melodie più celebri del pianeta, nonché, senza il testo, dal 1972 inno ufficiale della Comunità Europea, oggi Unione Europea, tendiamo a dimenticarcene. Ma si trattava di una musica assurda, rivoluzionaria, inconcepibile, che solo il tenace affetto nei confronti del suo autore fece accogliere con benevolenza. E ora è bello averla in prospettiva, come orizzonte, in questa nostra Europa imperfetta ma fondata su un’idea di sconfinata bellezza.