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 2024  maggio 01 Mercoledì calendario

Intervista a Milena Vukovic



Avrei voluto indossare una cosa più frou-frou... Ma che vuole: non ho neanche il tempo di andare a comprarmela!. Niente abito di gala, per Milena Vukotic. Alla cerimonia dei David di Donatello, quando venerdì le sarà conferito il premio alla carriera, andrà «con un abito da sera semplicissimo: un lungo color crema più soprabito scuro, che ho già». Troppo forte la tensione per il suo debutto teatrale in A spasso con Daisy (al teatro Quirino di Roma fino a domenica). Con la grazia che tre anni di danza sulle punte le hanno conferito, e lo sbarazzino profilo all’insù che le 89 primavere non hanno alterato, la deliziosa Vukotic è infatti protagonista (accanto a Salvatore Marino, e per la regia di Guglielmo Ferro) del testo di Alfred Uhry già premio Pulitzer, da cui fu tratto il film quattro volte premio Oscar con Jessica Tandy e Morgan Freeman. 
Perché è tanto emozionata, signora Vukotic?
«Perché sotto la sua aria da commedia leggera questo testo contiene dei temi di spessore, che sento molto. La solitudine degli anziani, il valore dell’amicizia. Daisy è una maestra ebrea ormai in pensione. È ricca, ma vorrebbe apparire povera; capricciosa ma con slanci di grande generosità. Soprattutto ancora vitalissima. Mentre secondo le regole dovrebbe ritirarsi in buon ordine. Il figlio vorrebbe almeno assegnarle un autista di colore. Lei no: caparbia, testarda, lo rifiuta, tenta di boicottarlo. Finché la pazienza di lui avrà la meglio sull’ostilità di lei. E a furia di battibecchi i due impareranno a stimarsi, divenendo profondamente amici».
Il tema della terza età. Qualcosa che, per motivi anagrafici, lei sente vicino a sé?
«Non perché m’immedesimi nel personaggio, eh! In A spasso con Daisy io non mi sento vecchia, faccio la vecchia. Mi diverto, gioco; ma intanto cerco anche di essere il più sincera, il più vera possibile. In fondo questa è la storia di due solitudini a confronto, diversamente emarginate. Da una parte l’ebrea anziana, dall’altra l’uomo di colore. Due esseri lontane anni luce, ma che, pure, vivono difficoltà molto simili».
Prima di recitare lei era una danzatrice classica. Nascono da qui la grazia e l’eleganza dell’attrice?
«Questo non saprei... Avevo studiato danza al Conservatorio di Parigi e poi, nel 1955, venni scritturata dalla prestigiosa compagnia del Marchese de Quevas. Quindi passai ad un altro grandissimo: Roland Petit. Di certo il lavoro massacrante che si fa nella danza t’inculca per tutta la vita un inflessibile senso della disciplina; una spinta inesorabile alla dedizione totale per qualunque altra cosa si faccia».
E poi, come passò al cinema?
«Accade quando vidi un film: La strada, di Federico Fellini. Una folgorazione. Seppi che il Maestro cercava volti nuovi per Boccaccio 70, l’episodio con Peppino de Filippo e Anita Ekberg. Mi procurai una lettera di presentazione dall’amico di un amico (che neppure conoscevo) feci la messa in piega e mi presentai al cospetto del Genio. La lettera neppure gliela diedi: ero troppo emozionata. E lui con esuberanza mi carezzò sulla testa (disfacendo l’opera del parrucchiere) e mi spedì subito a fare delle foto. Davanti, di profilo, come ai carcerati. Funzionò. Poi mi riprese anche per Giulietta degli spiriti, dove facevo una camerierina alle prese con la conserva di peperoni, e una santa martire sulla griglia, arrostita dal fuoco (vero)».
Molti altri grandi l’hanno voluta – Zeffirelli, Bunuel, Monicelli, Wertmuller, Scola, Loy, Bolognini, Bertolucci- ma quasi sempre in ruoli di fianco. Pensava di meritare di più? 
«No: sono contenta della mia carriera. Se non sono stata più spesso protagonista la colpa è del mio fisico. Il grande Renato Castellani me lo disse chiaro e tondo: Oggi vanno le maggiorate fisiche; con quel faccino lì cosa pretendi?. Senonché, alcuni anni dopo, quel faccino a lui andò benissimo: mi prese per fare la contessa Clarina Maffei nel Giuseppe Verdi girato per la Rai. Ma io non gliel’ho mai rinfacciato.
E infine il traguardo più ambito: venerdì le verrà consegnato il David di Donatello alla carriera.
«Ancora quasi non ci credo. Questo premio tocca una parte molto sensibile in me. No: non ho pensato forse c’era qualcun’altra che lo meritava di più. Fin da subito me lo sono goduto tutto, pienamente». 
Perdere l’autonomia ed essere emarginata: un incubo per Daisy. E per lei?
«Il mio lavoro mi tiene al riparo da queste preoccupazioni. Mi nutre, mi dà forza. Ogni giorno».