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 2024  maggio 01 Mercoledì calendario

Interviista a Irma Testa

«Sul ring entro in un’altra dimensione. È un pensiero assurdo, lo so: lì sopra odio la mia avversaria, ma devo mettermi in contatto mentale con lei, un’estranea che in quel momento vuole rubarti qualcosa di prezioso: è l’aspetto più entusiasmante del pugilato».
Partiamo da qui per spiegare chi è Irma Testa. Assisi, centro federale della boxe, il laboratorio dove gli azzurri preparano i Giochi. Doppia seduta giornaliera, dopo la seconda saliamo al piano superiore, al Museo. Due sedie sul ring di Roma 1960, quello di Cassius Clay. Recuperato dalla polvere e riportato in vita. Gong.
Bronzo a Tokyo 2020, campionessa mondiale in carica: un curriculum che nelle previsioni le vale l’oro a Parigi. Pesa questa responsabilità?
«Se vincessi l’oro sarei la donna più felice del mondo, ma conta il percorso. E l’ho fatto».
Quanto pensa ai Giochi?
«Mi sveglio e penso alle Olimpiadi, vado a dormire e faccio lo stesso. Ci penso ogni dieci minuti e sorrido. È un fardello, ma anche un sollievo. È come un figlio, un affetto. Un mantra».
Rio 2016, la prima. Ricordi?
«Avevo 18 anni, tutto troppo veloce. Ero un enfant prodige catapultata nel mondo dei grandi con aspettative maggiori rispetto alle mie capacità. Mi ero montata un po’ la testa, poi il destino e i pochi anni di esperienza mi hanno riportato sulla terra. Fuori ai quarti».
Tokyo 2020 in pandemia?
«Fantastica. E non solo per il bronzo».
Senza pubblico né tifo?
«Non dispiace, mi concentro di più, sento la voce dell’allenatore. Tanta gente che mi guarda mi mette l’ansia».
Le piace il silenzio?
«Sono atipica. Di sicuro molto zen, per questo ho scelto di vivere in Umbria: ho bisogno di una pace interiore, di calma prima della tempesta. Poi salgo sul ring e scateno l’aggressività. Prima devo sentire solo la mia voce e quella del tecnico».
Il primo pugno non si scorda mai?
«Avevo 12 anni, ero nella palestra di Lucio Zurlo, a Torre Annunziata. Mia sorella praticava già il pugilato e il maestro continuava ad invitarmi. Ci sono andata e ho sentito subito una sensazione che non scorderò mai. Avevo trovato il mio sport».
Descriva l’odio?
«Nello sport c’è il fairplay, ma sul ring hai di fronte chi ti vuole fare male e che per riuscirci ha studiato i tuoi punti deboli».
Sul ring è più importane la difesa o l’attacco?
«Per anni ho fatto della difesa la mia filosofia. A me importa portare a casa la pelle, sul ring ci si fa male e per fortuna o sfortuna io non sono una di quelle che pensa “fino alla morte”. Forse sono una vigliacca, ma ho ben chiara quanto valga la mia vita, quindi conta di più la difesa».
Il pugilato però ha un’immagine violenta...
«Nell’immaginario collettivo il pugilato sono gli incontri notturni, quelli che appassionavano i nostri nonni. Il più bel momento del pugilato, il più venduto dalla tv. Ma con tanta violenza, c’è gente che è morta. E io non avrei mai voluto essere su quel ring, neanche dalla parte di chi tirava il pugno del ko».
Esiste la boxe non violenta?
«Sul ring deve salire l’agonismo, non la violenza. Anche io sono violenta, ma lo faccio seguendo le regole e protetta».
Si è mai ferita?
«Venti punti sul sopracciglio, una cicatrice coperta con un tatuaggio. Un segno distintivo delle battaglie».
Gong. Giù dal ring: nella vita meglio la difesa o l’attacco?
«Ho attaccato fin da quando ero bambina, mi sono trovata bene e continuo. Nella vita difendersi non conviene mai».
Perché?
«Sprechi energie e tempo. Piuttosto che difendermi cambio strada e vado all’attacco su altro. Io odio perdere tempo».
Il coming out è attaccare?
«C’è la paura che gli altri ti giudichino in maniera negativa. E in questo mondo conta. Quando l’ho fatto ho capito che non mi fregava più del giudizio degli altri. Contava solo il mio, la mia approvazione. E l’accettazione della mia famiglia che sapeva da anni».
Se avesse vissuto al nord sarebbe stato più semplice?
«In realtà no. Ci sono meno pregiudizi al sud che al nord. E c’è più propensione all’ascolto, all’accoglienza. Se c’è l’ascolto c’è anche la comprensione».
Perché nello sport fa ancora scalpore l’omosessualità?
«Ancora adesso l’atleta è visto come un supereroe. E l’essere un supereroe per un adolescente non comprende la macchia dell’omosessualità. Basta, non c’è alcuna macchia».
A che cosa ha rinunciato?
«All’adolescenza. A una crescita fatta nei tempi giusti. Al mio essere bambina. A 14 anni mi sono trasferita ad Assisi, la vita è diventata improvvisamente subito seria. Non ho potuto divertirmi, in cambio ho avuto molto altro».
È riuscita a recuperare?
«A me non piaceva lo studio, ma ho capito quanto fosse importante solo da grande. Ho dovuto fare da sola ed è stato un dono apprendere le cose alla mia maniera».
Definisca il metodo Irma.
«Nella vita ho incontrato persone importanti che parlavano di cose a me sconosciute. Così andavo a casa e studiavo. Ho capito i temi che più mi appassionavano e sono andata avanti».
E quali sono?
«Mi piace la politica e la storia che c’è dietro. A prescindere dalle mie idee che lascio fuori quando studio».
Perché i giovani non amano la politica?
«Sono pochi i politici che si rivolgono ai giovani, la politica non è al passo con i tempi».
Le piace Giorgia Meloni?
«Mi piace la sua determinazione, la sua grinta È un’ottima fighter, un’ottima pugile: in contraddizione con il mio modo di combattere, politicamente molto distante dal mio orientamento ma porta avanti le sue idee con grande fermezza».
Giudizio su Elly Schlein?
«Sono più vicina alle sue idee politiche, ma non l’ho ancora inquadrata. Non penso sia adatta in termini pugilistici a un combattimento con gli avversari politici, non è una fighter come Meloni. Dovrebbe esserlo di più per imporsi».
Chi l’ha conquistata del passato?
«Uomini che magari hanno sbagliato ma che facevano la politica con il cuore. Craxi, Berlinguer, Moro: ecco, loro avevano potere e hanno cambiato il Paese».
Che cosa chiede alla politica?
«Di imparare dalla storia. Stiamo andando in una brutta direzione, fermiamoci prima che sia tardi. Invece di progredire arretriamo sui diritti e su quanto riceviamo dal Paese in cambio del nostro lavoro».
Si parla di politica tra gli atleti?
«No, né di politica né di temi sociali. Parliamo molto poco degli argomenti che interessano a me. Ma sono molto noiosi e il tempo va veloce e fuori sincrono con i miei interessi».
A che cosa non ha mai rinunciato?
«Alla mia famiglia. Ho il bisogno di abbracciare mia madre, mia sorella e mio fratello».
Sente il bisogno di diventare madre?
«Ho un istinto materno forte, mi vedo madre. Non do scadenze biologiche, non so quanto devo dare ancora al pugilato. Smetterò quando prenderò più pugni di quanti ne do. Non siamo ancora a questo punto».
Quando la sua mano è piuma e quando invece è ferro?
«È piuma quando sono con la mia famiglia, i miei nipoti. Con loro sono la persona più dolce del mondo. È ferro quando punto un obbiettivo».
Film sulla boxe: no Rocky, sì Million dollar baby? Perché?
«Rocky è finto. Million dollar baby mi ha segnato tantissimo, mi fatto piangere tutte le lacrime del mondo e poi Eastwood ricorda molto il mio primo allenatore, Lucio. Ma non riesco più a vederlo».
La boxe è patriarcale?
«È patriarcale tra gli appassionati, non ci reputano all’altezza anche se tutte le ultime medaglie le abbiamo portate noi donne. Uomini, amateci come amate la squadra maschile».
Quante ragazze fanno la boxe grazie a lei?
«Tante. Tutte quelle che non avevano il coraggio di entrare in una palestra e mi dicono che grazie a me hanno convinto la loro madre».
Quanto è stata importante la sua di mamma?
«Non mi ha mai ostacolato, ho trovato un angelo come madre. Non me la merito, mi reputo una brava figlia, una brava sorella, un buon membro della famiglia, ma mia madre è troppo. Vorrei aiutarla in tutto: lei fa la cuoca, soffro anche se lei ha un mal di testa, vorrei essere il suo antidolorifico».