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 2024  maggio 01 Mercoledì calendario

Intervista a Tamara Lunger


«Dolore profondo. E freddo, anche d’estate». Affiora con un velo di tristezza sul volto di Tamara Lunger il ricordo del terribile inverno del 2021 sul K2. Da allora «mi sto cercando». Incubo di morte. Era il 5 febbraio sulla seconda montagna più alta del pianeta, l’unica che ancora non era stata salita d’inverno. E Tamara aveva visto morire un amico, il catalano Sergi Mingote. L’ultimo respiro fra le sue braccia. E in quell’inizio di febbraio scomparve, oltre il “Collo di bottiglia”, passaggio chiave nella parte alta della montagna, il suo fidanzato, il cileno Juan Pablo Mohr, 34 anni. Sognavano una vita insieme. Ancora, la morte del bulgaro Atanas Skatov e la scomparsa, a trecento metri dalla vetta, dell’islandese John Snorri e dell’alpinista mito del Pakistan, Muhammad Alì Sadpara, che nel 2016 salì d’inverno in cima al Nanga Parbat con Simone Moro e Alex Txikon. C’era anche Tamara, si fermò a 70 metri dalla vetta, per recuperare forze necessarie alla discesa.
Al K2 freddo, dolore, disperazione. Dopo anni di spedizioni ha detto basta e si è messa a volare con il deltaplano.
«Freddo legato a tristezza e lutto. Ho cominciato a volare, anzi a far gare per sentirmi costretta a farlo, per scacciare la paura».
Cioè?
«Traumoterapia. Affronto la paura del volo per scacciare quella di vivere. Avevo preso il brevetto già prima del Covid, poi ho ripreso con le spedizioni».
E per paura ha smesso l’alpinismo?
«Ho smesso di far tutto. La morte m’inseguiva, avevo crisi di panico perfino mentre camminavo su un sentiero o vicino a una strada. Il terrore di essere investita. Vivevo in un incubo. Paure irrazionali, nulla riusciva a darmi risposte. Ero terrorizzata anche di essere aggredita, uccisa, come se la morte si materializzasse, mi ghermisse».
E con il volo è riuscita a superare quest’inferno?
«Sì. La leggerezza, l’aria che ti sostiene, la paura che si trasforma in attenzione nel vuoto. E poi pian piano, la gioia di sentire libertà intorno, ecco. E soprattutto quella sensazione di non dover più rispondere alle aspettative altrui».
Qualcuno la stressava?
«Senza volerlo. Le domande di chi incontravo erano sempre sulla mia possibile prossima spedizione. “Prossima montagna?”, mi domandavano e io, confusa, mi spaventavo. Poi il panico che mi assaliva e allora ho capito che non avevo più il controllo. Dovevo riprendermi la vita».
Quindi basta con le scalate?
«Da allora ne ho fatta soltanto una in Dolomiti. Sono tornata alla mia prima grande passione, lo scialpinismo. E poi le escursioni, le salite in vette senza particolari difficoltà, perché adoro l’alta quota e il K2 resta comunque la mia montagna».
Anche il K2? Forse perché è stata, dopo Nives Meroi, la seconda donna italiana a salirlo senza ossigeno?
«Non solo. È la mia montagna nonostante tutta la tristezza in cui mi ha precipitato. Mi ha indicato un senso, un motivo. Credo che tutto quanto mi è capitato abbia un perché. Mi sono ricordata che cosa mi aveva detto una donna francese dopo la spedizione con Simone Moro in Pakistan per fare la prima traversata invernale degli ottomila Gasherbrum I e II. Era una sorta di guru che mai mi aveva vista o sentita. Lei mi disse: “Se continui così hai un anno di vita"».
Era gennaio del 2020, l’anno prima del K2. Lei e Simone tornaste feriti dopo la caduta in un crepaccio.
«Simone era stato inghiottito e io ero stata trascinata fino al bordo del crepaccio. Dopo due ore lui riuscì a uscire, io lo aiutai, mi feci male a una mano, stritolata dalla corda. Quando tornai andai dal mio terapeuta. Avevo male dappertutto. E lì incontrai la francese che guardandomi mi disse: “Tu sei un uomo, non riesci ad accettare la tua femminilità"».
Che intendeva?
«L’ho capito al K2 e al mio ritorno. Affrontavo la montagna con grinta spaventosa e solo con un obiettivo, la cima. Ho ripercorso quanto accaduto al Gasherbrum e fra noi due il maschio, nel senso dell’ambizione della meta, ero io. Lui mostrava sensibilità. E non solo per la sua grande esperienza, ma proprio nel modo di sentire la montagna. Lo incitavo, “dai, andiamo, tracciamo la neve, il tempo è buono”, lui invece frenava, ascoltava quanto ci accadeva intorno. Ho cominciato a capirlo nel dolore del K2».
C’è stato un momento particolare?
«Quando Sergi è morto fra le mie braccia. Ero disperata e ho sentito il mio corpo, la sua potenza. Avevo le mestruazioni e ho capito quanto possa reagire il corpo femminile in quella situazione, scoprendo forze impensabili. Fu incredibile. Non siamo soltanto carne e ossa, come si dice. In quel momento la mente ha ordinato la necessità della reazione a tutta me stessa. Ecco la femminilità, l’approccio diverso, un altro modo di pensare anche grazie al nostro corpo».
È così che ha ritrovato la propria identità?
«Già, ma ho avuto un grande aiuto dal mio fidanzato che vale oro. Davide mi ha dato tutto se stesso, quasi annullandosi. Ho ritrovato uno stato d’amore, per me prima di tutto, per noi due e la natura. Poi ho il calore di altre due famiglie, oltre la mia, quella di JP, Juan Pablo, in Cile, e quella di Sergi, vicino a Barcellona. A giugno sarò in Pakistan per proseguire il progetto “Climbing for a reason” ideato da JP per dare un futuro a giovani scalatori, ragazze e ragazzi del luogo. Con me Saba, una scalatrice pakistana».
E gli Ottomila? Ci tornerà?
«Mi fanno tristezza. Non vedo umanità. Proprio al K2 l’estate scorsa alpinisti sono passati sopra un portatore agonizzante. Le spedizioni commerciali sono un mondo perduto, dove nulla conta più. Eppure quelli sono posti degli dei. E voglio tornare quando sarò nella mia versione migliore, nello stato più puro possibile. Quando non sentirò più freddo»