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 2024  maggio 01 Mercoledì calendario

Intervista a Mircea Cartarescu


Considerato il maggiore scrittore romeno, Mircea Cartarescu torna in Italia dov’è molto amato. Vincitore del premio speciale Ceppo, tra domani e domenica è a Firenze e Pistoia, mentre al Salone del libro di Torino riceverà il premio internazionale Mondello per l’Autore straniero. «Sono molto felice e grato di ricevere due splendidi riconoscimenti. Questa è la migliore prova che il pubblico italiano apprezza i miei libri», dice al «Corriere» questo scrittore di 67 anni, dai modi miti e dal potente immaginario che, in epoca di letteratura standardizzata, con opere uniche nella loro originalità come la trilogia Abbacinante (Voland), il romanzo Solenoide (Il Saggiatore), le tre storie di Melancolia (La nave di Teseo), ha ridisegnato i confini del romanzo. «Per me la scrittura non è una carriera, ma una vocazione, un’arte e una sorta di religione – spiega con semplicità —. Amo scrivere e questo mi basta. Quando non scrivo mi sento infelice. Mi piacciono i giorni, le ore, i minuti passati davanti ai miei quaderni, con la mia penna stilografica in mano. Scrivere è una beatitudine, è un’arte del presente. Tutti i libri, gli scrittori, le recensioni, i premi prima o poi spariranno. Ciò che rimane per sempre è il momento della creazione, quando, come disse il poeta Hölderlin, “un tempo vivevo come gli dei”».
La sua letteratura è stata definita di volta in volta metafisica, visionaria, magica, psichedelica. Si riconosce?
«Lascio le definizioni ai professori e ai critici. A mio parere solo gli scrittori mediocri rientrano in categorie. Un poeta, come diceva Salinger, è un essere alato: non si può mettere in gabbia. Ho scritto romanzi, poesie, saggi, libri per bambini, accademici, di viaggio, raccolte di articoli politici e culturali, e non mi vergogno di nessuna delle mie pagine, non perché tutte siano grandi (la maggior parte non lo sono), ma perché non ho mai tradito le mie convinzioni artistiche. Ho scritto il romanzo più ambizioso e l’ articolo più umile con la stessa passione e devozione».
Non crede al metodo nella scrittura?
«In modo molto limitato. Le mie pagine sono sempre il prodotto di due persone, come alcuni pezzi per pianoforte scritti a quattro mani. Io sono l’attore minore in questo duo, l’altro è la mia strana e misteriosa mente. In realtà, tutto ciò che faccio è frenare un po’ il folle entusiasmo del mio partner ultraterreno, che altrimenti farebbe a pezzi la tastiera. Oppure, sono come il piccolo e debole fantino che monta in groppa a un cavallo alle corse. Sono consapevole che non sono io a vincere. Il segreto è lasciare che il cavallo vinca da solo, toccandolo il meno possibile. Ma sono anche come una macchina da cucire: un filo deve venire dal basso e un altro dall’alto. Con un solo filo non si cuce nulla».
La pratica della poesia in gioventù ha influito sulla sua scrittura in prosa?
«Essere un poeta non ha nulla a che vedere con lo scrivere versi. Al contrario, nella maggior parte dei libri di poesie si trova meno poesia che altrove. La poesia è in realtà una disabilità della mente, come lo spettro autistico. Si nasce così. Anche i poeti sono persone anomale. Riescono a vedere la bellezza mille volte più di noi. Anche in luoghi orribili, disgustosi, vergognosi, oltraggiosi. Ho iniziato scrivendo poesie sotto forma di poesie e ho continuato scrivendo poesie sotto forma di racconti e romanzi. Dostoevskij ha definito Le notti bianche un poema di Pietroburgo. Sono d’accordo. Anche Le onde di Virginia Woolf è una poesia, anche Finnegans Wake di Joyce e Novecento di Baricco».
E la grande attrazione per la scienza che emerge da tutti i suoi libri?
«Anche quella è poesia, basta leggere un libro sulla gravità quantistica o un volume di entomologia, di parassitologia, di embriologia. Pura beatitudine».
Il solenoide che dà il titolo al suo romanzo è un’enorme bobina di filo conduttore piazzata sotto la casa del protagonista. In italiano la parola è molto simile a solitudine, che è un altro dei temi che emergono spesso nelle sue opere, per esempio nelle storie di «Melancolia».
«Un solenoide è un dispositivo che produce levitazione, il più grande sogno e ossessione dell’umanità. La levitazione reale elimina il confine tra il sogno e la veglia. Anche la solitudine è magica. Per me non è un peso ma una passione dell’anima. Una volta mi è stato chiesto come immagino il Paradiso. Ho risposto: “È un pianeta pieno di città, ma vuoto di abitanti. Ci sono solo io, un bambino di sette anni, che a mezzogiorno esploro edifici in rovina, appartamenti, strade, piazze, cortili. Felice della mia solitudine e della mia immortalità”. È per questo che ho una passione per i pittori che hanno ritratto le immagini del mio paradiso, come Monsù Desiderio, Giorgio De Chirico, talvolta Dalí».
In «Melancolia» i suoi genitori sono rappresentati come due statue o due divinità. Le statue ricorrono spesso nei suoi libri: in «Abbacinante» si animano, scendono dai piedistalli. Nella sua opera i simboli sono molti, come i sogni.
«Sono ossessionato dall’architettura antica, dagli edifici barocchi, dalle statue... Li sogno continuamente. Non escludo che, per uno strano processo epigenetico, alcuni ricordi della nostra vita precedente invadano talvolta i nostri sogni. Quando ho visto per la prima volta certi quadri di Claude Lorraine o di Piranesi, sapevo di averli già sognati. Nel mio nuovo romanzo, Theodoros, ho descritto isole in cui non ero mai stato e in seguito, quando le ho visitate, quelle descrizioni si sono rivelate accurate. La Madre e il Padre sono i modelli di tutti gli dei che abbiamo mai immaginato. Sono creature enormi e onniscienti, benevole e serene. Portano luce ovunque e dissipano le nostre paure. Melancolia è il libro che amo di più. È un libro implosivo, bisogna leggerlo più volte per arrivare al suo nucleo oscuro. Ci sono storie di dolore e perdita, storie di amore senza speranza, storie metafisiche e gnostiche. È sicuramente il mio libro più triste e forse uno dei più tristi mai scritti».
A proposito di «Theodoros», che in Italia uscirà in autunno dal Saggiatore tradotto da Bruno Mazzoni. Che libro è?
«Un romanzo pseudo-storico di 600 pagine, credo uno dei miei migliori romanzi in assoluto, totalmente diverso dai precedenti. Ho lasciato vagare la mia fantasia senza limiti. La storia è ambientata principalmente nel XIX secolo, durante il regno della regina Vittoria, ma in realtà comprende 3 mila anni di storia, dai tempi di re Salomone nel passato fino al 2041 nel futuro. Si estende su più di metà del pianeta, dalla Valacchia all’Inghilterra, dall’arcipelago greco all’Etiopia, dal Sudafrica alla Cocincina... È il mio Cent’anni di solitudine e spero che il pubblico italiano lo apprezzi almeno quanto ha apprezzato Solenoide».
Ha vissuto metà della sua vita sotto la dittatura di Ceausescu. Come si è difeso?
«Avevo 34 anni quando è avvenuta la nostra rivoluzione. Ma a quel tempo ero ancora un adolescente, sono diventato un vero adulto solo a 65 anni... e non ne sono ancora sicuro! A quel tempo ero già un poeta ed ero in un favoloso gruppo di giovani scrittori, la leggendaria Blue Jeans Generation degli anni Ottanta. Avevamo un profondo disprezzo per il regime comunista, leggere e scrivere era il nostro kit di sopravvivenza. Come tutti i miei compatrioti soffrivo la fame, il freddo e la paura della polizia segreta, ma avevo la letteratura e mi bastava. Negli anni Ottanta ho scritto alcune delle mie migliori poesie e racconti, in condizioni terribili, e non cambierei nemmeno una parola».
Pubblicare era dura.
«Ogni libro doveva essere censurato, anche quelli per bambini o di cucina. Tutti i miei tre libri di poesie pubblicati prima del 1989 sono stati censurati. Hanno eliminato la maggior parte dei contenuti politici, sessuali o religiosi. Ho dovuto rimettere questi contenuti quando ho potuto pubblicarli di nuovo. Nostalgia subì la censura più dura: circa un quarto delle sue pagine furono eliminate. Ero arrabbiato, ma ogni libro pubblicato era una vittoria»
Ha mai pensato di lasciare il Paese in quegli anni?
«Non prima della rivoluzione del 1989 né dopo. Tutti i romeni famosi nel mondo, come Brancusi, Enescu, Cioran, Eliade, Tzara, vivevano all’estero, nei grandi centri di affermazione culturale come Parigi, New York, Berlino, Roma... Per loro, vivere in Romania avrebbe significato una condanna all’anonimato. Sono sempre stato consapevole di questo pericolo, ma ho scelto di vivere a Bucarest. Innanzitutto perché non mi importa nulla della fama e della popolarità. Poi, perché ho una bella famiglia, un bel giardino, quattro bei gatti, quindi tutto ciò di cui ho bisogno. Per il resto, posso scrivere in qualsiasi parte del mondo se ho una tazza di caffè sul tavolo e una porta chiusa tra me e l’universo».
«Dovevo avere 12 anni quando la mia paura del mondo divenne acuta e chiara» dice il protagonista di «Solenoide», suo alter ego. Lei di che cosa ha paura?
«A volte mi odio per essere una persona così egocentrica. In mezzo a tanti pericoli – le guerre, l’intelligenza artificiale, i meteoriti che potrebbero farci a pezzi, il ritorno delle pandemie, gli incidenti, le disgrazie – la mia unica grande paura è quella di non riuscire più a scrivere...».