Corriere della Sera, 1 maggio 2024
Intervista a Gianni Morandi
Gianni Morandi compie ottant’anni a dicembre, ma non sta fermo un attimo. Attizza il camino, passeggia tra le querce che continua a piantare nel parco di casa, va a controllare una citazione de L’idiota di Dostoevskij – «il mio libro preferito, l’ho letto tre volte» —, cerca una vecchia foto con Rita Pavone, telefona a Tobia l’ex manager novantenne di Lucio Dalla, controlla la cottura dei tortellini, riattizza il camino...
Morandi, qual è il suo primo ricordo?
«I veglioni di Capodanno del dopoguerra. La sera i grandi ballavano, al mattino noi piccoli passavamo nelle case a fare gli auguri e ricevere cinque lire di mancia».
Suo papà Renato era ciabattino e comunista.
«Io ho la quinta elementare. Non c’erano scuole medie a Monghidoro, ma il babbo disse: ti insegno io, se no diventi un ligirot, un teppistello. Il pomeriggio lavoravo in bottega, e il mattino mi dava i compiti. Le letture. A voce alta».
Quali?
«I giornali del partito, che lui diffondeva: Rinascita, La Lotta, Avanguardia, Vie Nuove, Noi donne. E l’Unità: almeno cinque metri di lettura al giorno. Poi i libri: Il capitale di Marx, Un passo avanti e due indietro di Lenin, Storia del partito comunista dell’Urss di Stalin... Non ci capivo niente».
Il babbo era un uomo severo.
«Ma giusto. Una volta litigai con il figlio di un democristiano, lo bagnai tutto, e lui mi picchiò con lo sparadello».
Con cosa?
«Lo sparadello serve per legare la suola alla tomaia. Il babbo lo teneva a mollo per averlo sempre umido: sulle gambe nude era dolorosissimo. Però lui non voleva che litigassi con i figli degli avversari politici. Con il macellaio missino neppure si salutavano. A fare la spesa andavo io: un etto di macinato e sette etti di pasta. Con i soldi contati: 275 lire».
E sua mamma Clara?
«Faceva la lavandaia. La ricordo d’inverno spaccare il ghiaccio della pozza del Comune, per lavare gli “american stracci”, i jeans e i giubbotti che poi vendeva al mercato di Bologna. Leggeva Grand Hotel, Sogno e Luna Park di nascosto dal babbo, che non voleva».
La musica come cominciò?
«Esordii a 13 anni, nella casa del popolo di Alfonsine di Ravenna. Alle pareti c’erano quattro ritratti: Gramsci, Togliatti, Marx e Stalin. Stalin poi lo tolsero. A Reggio in un concorso mi trovai con due ragazzine: erano Iva Zanicchi e Orietta Berti. Andavo a Bologna dalla maestra Scaglioni. Partivo giovedì con la corriera, tutto contento».
Come mai?
«Mi davano 500 lire a concerto, più la cena. La domenica cantavo sia il pomeriggio sia la sera. Il giorno più brutto era il lunedì, quando tornavo a casa. Andavo in banca a versare 2 mila lire, sul libretto al portatore che mi aveva aperto il babbo, che da me non voleva soldi».
È vero che fu un arbitro di boxe a lanciarla?
«Si chiamava Paolo Lionetti, e aveva arbitrato Sugar Ray Robinson. Cantavo a Bellaria. Ad ascoltarmi c’era Raffaella Carrà, che veniva a trovare la nonna: aveva 19 anni, uno più di me, ed era splendida. E c’era Lionetti. Voleva fare di me un pugile, ma al primo pugno capii che non ero adatto. “Allora proveremo con la musica” disse. Così, in alternativa».
Come andò?
«Lionetti possedeva venti juke-box. Mi portò alla Casa del disco di Bologna, dove si approvvigionava, e proclamò: questo ragazzo canta bene! Ci guardarono come per dire: e a noi cosa importa? Poi però ci consigliarono di andare a Roma, alla Rca».
Il provino.
«Avevo tre canzoni: Il cane di stoffa di Pino Donaggio, Non arrossire di Gaber, Non esiste l’amor di Celentano. Mi dissero: le faremo sapere; e sparirono».
Ma per la Rca lei incise «Andavo a cento all’ora».
«Il ritornello l’aveva scritto un minatore emigrato in Belgio: “Andavo a cento all’ora per trovar la bimba mia, tantatanta...”. Però c’era solo quello. Il resto lo scrisse Franco Migliacci, l’autore di Volare con Modugno. È una storia incredibile, che dimostra quanto sono fortunato. I nastri Geloso con i provini erano accatastati in alto, ne cade uno, si attorciglia attorno alle gambe di Migliacci, cui pare un segno del destino. Lo ascolta. “Di chi è questa voce?” chiede. “Di quel ragazzino tutto storto di Bologna...”. “Facciamola cantare a lui”».
Il successo fu clamoroso.
«Non me ne resi neppure conto. Negli Anni 60 non potevo più andare in giro, si formavano blocchi stradali. Una volta al cinema Metropolitan di Roma fui riconosciuto, si accesero le luci, interruppero il film. I dischi venivano presentati appositamente alla Standa di Napoli; ogni volta c’erano venti milioni di danni, e i giornali titolavano: i fan di Morandi devastano la Standa».
«In ginocchio da te» la arrangiò Ennio Morricone.
«Il capo della Rca, Melis, non voleva cha la cantassi io: “Morandi può fare solo le canzoni da adolescente…”. Migliacci insistette. A Morricone fece rifare l’arrangiamento tre volte, Ennio era furibondo, alla terza versione sbottò: “E tenetevi questa stronzata!”. Vendette un milione e mezzo di dischi, vinse il Cantagiro, divenne un film...».
I «musicarelli».
«Mi presentarono l’attrice che mi avrebbe affiancato: era Laura Efrikian. Ci innamorammo».
Marco Bellocchio la voleva come protagonista de «I pugni in tasca».
«Adoravo il cinema da quando vendevo caramelle e semi di zucca nelle sale, e sbirciavo gli attori americani. Avevo anche cantato una canzone orribile, Penelope, in un film con Totò, Totò sexy. Poi arrivò Bellocchio, mi mostrò una serie di disegni fatti da lui, con tutte le scene del film, fino all’ultima, quando il protagonista ammazza la madre. Volevo accettare, ma Migliacci me lo impedì: “Tu sei matto! Gianni Morandi che ammazza la mamma?!”».
Celentano la voleva nel Clan.
«Celentano era il mio mito, e lo è ancora adesso. Ci sarei andato, ma mi sconsigliarono: nel Clan c’era un solo capo, lui. Ci riprovò anni dopo. Mi convocò a casa a Milano, c’era anche Mina, e disse: “Facciamo un nuovo Clan. (Morandi imita Celentano alla perfezione). Come in America: Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis. Così Sanremo, Cantagiro, Canzonissima li organizziamo noi. E abbiamo anche la ragazza del Clan” disse indicando Mina, che era libera. Io però ero sotto contratto con la Rca. Era una grande idea, ma non se ne fece nulla».
Lucio Dalla come l’ha conosciuto?
«Nel 1963, al teatro greco di Taormina. C’era questo ragazzo con il barbone che suonava il clarinetto nei Flippers. Parliamo e scopro che è tifoso del Bologna, come me. Diventiamo amici, giriamo l’Italia per vedere le partite: una domenica al Dall’Ara in curva, quella dopo a Roma, Milano, Bergamo... Finisce che vinciamo lo scudetto, nello spareggio con la Grande Inter».
Si disse che Dalla fosse innamorato di lei.
«Non la metterei così. È stata un’amicizia fraterna, come si può essere amici con un genio. Fu lui a farmi cambiare modo di cantare: “Guarda che non c’è solo Claudio Villa, c’è anche Ray Charles...”. Il suo alter ego era Tobia, che ora ha novant’anni, e sbraitava: “Volete fare tutti i cantanti! Meno chitarre, più zappe!”. Una volta Lucio venne a casa mia con un alano più grande di lui: “Si chiama Sultan. Tienimelo per tre giorni, ti lascio diecimila lire perché mangia un chilo di carne al giorno”. Passa una settimana, e Lucio non torna. Avevo una capretta dolcissima, e Sultan alleato con il mio cane lupo Black se la mangiò, rimasero solo le corna. Così chiamai la mamma di Lucio».
La signora Iole.
«Mi disse che suo figlio non aveva nessun cane di nome Sultan. Voleva rifilarlo a me».
All’apice del successo lei partì militare.
«Per due anni mi avevano fatto rivedibile per insufficienza toracica, ma nel febbraio 1967 dovetti arruolarmi: lo Stato non poteva favorire un cantante. Fu un bel periodo: in caserma finalmente stavo con i miei coetanei. Un po’ soffrivo: quell’anno esplosero Al Bano con Nel sole, Little Tony con Cuore matto, Fausto Leali con A chi; e io a fare marce, flessioni, guardie...».
Con le marce ci ha preso gusto.
«Ho corso una decina di maratone. Per l’ottantesimo compleanno ho promesso a Prodi che faremo insieme la maratona di New York. Per me sarà la quarta».
Nel 1966 incise «C’era un ragazzo», contro la guerra del Vietnam.
«Migliacci era contrario: “Tu sei quello di In ginocchio da te, cosa c’entri con la guerra...”. Quella volta mi impuntai. Nell’Hit Parade era prima, ma in tv non si poteva suonare. La censura impose di sostituire “adesso è morto nel Vietnam” con “adesso è morto, ta-ta-ta”. Finalmente potei cantarla, e non dissi ta-ta-ta, dissi Vietnam. Fu uno scandalo, ci furono interrogazioni parlamentari».
Lei fu il primo produttore di Renato Zero.
«Il merito fu di Migliacci. Lui e io avevamo un’etichetta discografica, la MiMo: Mo stava per Modugno, cui subentrai io, senza cambiare il nome. Renato lo prendevano tutti in giro, magro magro nelle sue tutine aderenti, i capelli lunghissimi sulle spalle; ma si capiva che era geniale. Nel 1971 cantai a Roma al teatro Brancaccio: i miei coristi erano Renato Zero, Mia Martini e Loredana Bertè. Purtroppo non si trova più la foto».
Il 1971 è l’anno della contestazione al Vigorelli.
«Mi fece molto male. Dovevamo suonare in tanti, Milva, Lucio, io, prima dei Led Zeppelin. A Ezio Radaelli, l’organizzatore, l’avevo chiesto: sei sicuro che sia una buona idea? E lui: fidati, sarà un trionfo! Salgo sul palco, e si alza un boato. Mi giro verso Radaelli, che mi sorride: hai visto? Solo che era un boato al contrario. Guardo il pubblico e capisco che ero diventato il simbolo di quello che detestavano. Esattamente il tipo di cantante che non volevano più».
E cosa fece?
«Provai a conquistarli con “C’era un ragazzo”: in fondo era una canzone di protesta. Mi subissarono di fischi, dovetti lasciarla a metà e andarmene. Fu una sberla terribile. Pensai che aveva ragione mio padre, quando mi diceva: tutto questo finirà presto. Non avevo ancora 27 anni, e sembrava già tutto finito».
Invece...
«Invece c’è sempre un altro treno che passa. E io, come le ho detto, sono sempre stato fortunato. Solo che quel treno dovetti aspettarlo per anni. Anni in cui non mi funzionava niente».
Come cambiò la sua vita?
«Mi ritrovai le giornate vuote. Mi ero separato da Laura, lei era andata a Roma, i nostri figli Marianna e Marco rimasero con me. Li portavo a scuola, e non avevo niente da fare. Decisi di iscrivermi al conservatorio. Facevo musica da sempre, ma non l’avevo mai studiata. Però temevo che, con tutti quei ragazzini, non avrebbero mai preso uno come me. Così feci domanda per la classe di contrabbasso».
Perché?
«È uno strumento alto e grosso, che i ragazzini non possono suonare. Mi presero. Con me c’era un giovane che aveva fatto tre domande: alle ferrovie, alle poste, e al conservatorio. Presero pure lui, ora è un bravissimo violoncellista».
Le è servito il conservatorio?
«Tanto. Ero incolto, e forse era stata questa la causa della rottura con Laura: lei veniva dal Piccolo Teatro, io da una bottega di ciabattino. Suo padre musicologo mi aveva regalato il disco della Sagra della Primavera di Stravinskij, io lo ascoltai 25 secondi e dissi: cos’è ’sta roba? Al conservatorio ho scoperto Beethoven e Shostakovic, ci facevano cantare “Il Clavicembalo ben temperato” di Bach...».
Poi fece un musical.
«Avevamo visto Jesus Christ Superstar, e in tanti ci gettammo sulla religione. Avrei dovuto fare San Francesco. Invece lo fece Tony Cucchiara, e andò benissimo. Io mi buttai su Jacopone da Todi...».
«O Signor per cortesia, mannane la malsanìa».
«Quello che invocava ogni genere di malanno e si fustigava. Fu un disastro. Per fortuna una sera venne a vedermi Gaber».
Giorgio Gaber?
«Un maestro. Mai visto un attore capace come lui di far piangere e far ridere. Ogni volta mi consigliava come stare sul palco: non usare mai il microfono con l’asta, dare ogni tanto le spalle al pubblico… Quella sera mi disse: “In scena siete in 45; troppi. Di ballerini ne bastano due non sei, metti le basi al posto dell’orchestra...”. Lo spettacolo su Jacopone rimase uguale. Continuò ad andare malissimo; ma almeno Gaber mi aveva salvato i conti».
Nel ’76 lei fece una canzone di enorme successo, Sei forte papà.
«Tutti puntavano sui bambini. Mal aveva fatto Furia cavallo del West, Bruno Lauzi Johnny Bassotto; io feci l’arca di Noè. Vendetti un milione di dischi; ma alla lunga fu un ostacolo. Ero diventato il cantante dei piccoli».
A chi deve la risalita?
«Un giorno mi chiama Mogol, che aveva rotto con Battisti. Penso voglia propormi una canzone. Invece mi dice: “Tu sai giocare a pallone? Voglio mettere su una squadretta di cantanti, per ora siamo io e il Guardiano del Faro” (Morandi imita Mogol alla perfezione). Rispondo di sì, coinvolgo Riccardo Fogli, Pupo, Umberto Tozzi. Chiedevamo ai parroci i campetti per allenarci. “Un giorno riempiremo lo stadio Olimpico” disse Mogol. In effetti, con la Nazionale cantanti, è successo».
Sì, ma le canzoni?
«Mogol voleva parlare solo di calcio. Mi fece anche presidente della squadra, ma si arrabbiava perché lo mettevo in panchina, “io corro più degli altri!” diceva. Un giorno mi esasperò al punto che in ascensore cominciai a urlare, stavo per mettergli le mani addosso, per fortuna l’ascensore si aprì e Mogol uscì gridando: “Salvatemi dal pazzo di Monghidoro!”».
Le canzoni.
«Mogol mi chiamava, io lo raggiungevo a Milano, lo accompagnavo a Porto Santo Stefano ad aggiustare la barca, poi andavamo a funghi, e io pensavo: prima o poi si parlerà di musica... Passò un anno. Poi, all’improvviso, mi fece: ma tu non canti più?».
E riprese a cantare.
«Secondo Mogol dovevo cantare in modo diverso, come se stessi parlando, tipo i crooner americani. Mi sottopose all’esercizio che infliggeva ai suoi allievi: cantare Dylan, Sting e Tracy Chapman, ma senza interpretarli, proprio imitandoli. E io esegui: “How many roads must a man walk down...” (ora Morandi diventa Bob Dylan). Finalmente Mogol si decise a farmi incidere un disco: “La gente penserà: chi è questo grande cantante? Certo, se si accorgono che sei Gianni Morandi, siamo rovinati”. Mi gelava con queste battute feroci; però ci volevamo bene».
E lei incise Canzoni stonate: «Canto solamente insieme a pochi amici...».
«In effetti era la mia condizione di allora. Il capo della Rca, che era sempre Melis, si oppose: voleva dare la canzone a Gabriella Ferri. Mogol rispose che l’aveva scritta per me, ma Melis era implacabile: “Non stare lì a perdere tempo con Morandi...”. Invece produssero il mio primo album, fino ad allora avevo fatto solo 45 giri. Vendetti 17 mila copie: pochine. Ma era il primo passo verso la risalita».
Lei riesplode con Uno su mille: «Se sei a terra non strisciare mai...».
«“Se ti diranno ‘sei finito’, non ci credere”. Anche qui c’era una nota autobiografica. Era una canzone inserita in una serie tv di successo, Voglia di cantare. È diventata un inno di chi non si arrende. Perché ognuno pensa di essere quell’uno su mille, e non gli altri 999».
Era il 1986. L’anno dopo vinse Sanremo, in trio con Tozzi e Ruggeri. Nell’88 partì in tour con Dalla.
«Lucio me lo proponeva da tempo, ma avevo sempre detto di no: lui era il numero uno della musica italiana, io un artista scomparso. Dissi di sì quando sentii che non sarei stato un peso per lui».
Battiato vi scrisse una canzone, «Che cosa resterà di me», e voi gli cambiaste il testo: «La valle tra i due fiumi della Mesopotamia, che vide alle sue rive Isacco di Ninive...»
«Fu Lucio a dire: lasciamo perdere i sumeri e gli assirobabilonesi, cosa c’entriamo noi coi sumeri... Allora Battiato in cinque minuti ci mandò un’altra versione: “Mi piacciono le scelte passionali, quella saggezza pratica che si tramanda il popolo. Adoro quando sto lontano qualche settimana, quell’atmosfera che ritrovo ritornando qui in Emilia”. Poi Franco la cantò nella versione originale, e la intitolò Mesopotamia».
Sia Dalla, sia Battiato vennero al suo Sanremo del 2012. Nel 2011 aveva vinto Vecchioni. Furono i Sanremo dei cantautori.
«Vecchioni non voleva assolutamente venire, andai a casa sua per convincerlo. Sapevo che aveva una canzone formidabile, ma Roberto temeva che non sarebbe stata capita. Era anche una canzone politica. Ma vinse perché fu sentita come una canzone d’amore».
Erano i 150 anni dell’unità d’Italia.
«Benigni entrò nell’Ariston a cavallo, come Garibaldi, con il tricolore. E la percezione di quell’anniversario cambiò. Gli italiani si resero conto che era una cosa importante».
Lei poi è tornato a Sanremo cantando canzoni di Jovanotti. Com’è nato il vostro sodalizio?
«Dal mio incidente. Era l’anno del Covid. Avevo raccolto degli sterpi da bruciare in giardino, ma il forcale rimase incastrato nei rovi; feci forza, mi rovesciai su me stesso, caddi sulle braci. Pensavo di cavarmela con una crema: ventisette giorni di ospedale, tre interventi. Guardi il buco nella mano destra...».
Sembra che abbia le stimmate.
«Mi telefona Jovanotti: “Gianni come stai? Forza, che quando esci ti scrivo una canzone!”. Mi piace la sua positività, anche adesso che è caduto e si è rotto il femore reagisce con il sorriso. In lui rivedo qualcosa di me».
Gira una sua foto con l’occhio destro bendato. Cos’è successo?
«Nulla di grave, un intervento al cristallino».
Lei sui social è attivissimo. Ogni tanto la insultano. Anche per un’innocua foto con la busta della spesa.
«Perché era domenica. Dicevano che avevo offeso i lavoratori. Proprio io...».
È ancora un uomo di sinistra?
«Certo».
Cosa vota?
«Pd. Ho fiducia in Elly Schlein, può fare bene. Anche la Meloni è una donna forte, mi fa piacere vedere donne al vertice. Certo, una volta c’era Berlinguer. Conoscerlo mi emozionò molto».
E Berlusconi?
«Grande seduttore. Ti ubriacava di parole. Quando andavi a trovarlo ad Arcore ti accompagnava alla macchina e restava lì, con il braccio alzato in segno di saluto, finché la macchina restava in vista. Berlusconi non l’ho mai votato, ma mi era simpatico».
E sua moglie Anna come l’ha conosciuta?
«Trent’anni fa, a casa di un musicista bolognese amico di Lucio, Mauro Malavasi. Le chiesi il numero di telefono, e lei me lo diede: sbagliato. Ho dovuto inseguirla a lungo...».
Lei ha cinque nipoti: due sono figli dell’amore tra sua figlia Marianna e Biagio Antonacci.
«Biagio è un bravo artista e una brava persona; ma suo figlio Paolo, mio nipote, come autore è persino meglio, ha già scritto dieci canzoni di successo».
Lei crede in Dio?
«Prego. La sera recito le preghiere che mi ha insegnato mia nonna paterna».
Non eravate comunisti?
«Ogni giovedì nonna Maria veniva a piedi da Ca’ di Morandi, la sua frazione, al mercato di Monghidoro, e mi regalava “La dottrina cristiana”. Il babbo la vedeva e me la strappava. Lei il giovedì dopo me la riportava. Mio padre morì a 49 anni, e lasciò scritto che voleva una tomba semplice, senza nessuna croce. La nonna gliela fece mettere. Di marmo».
E lei?
«L’ho tolta. Mio padre voleva così».
Teme la morte?
«Temo il morire. La malattia, la sofferenza. Però so già quale canzone passerà in tv il giorno della mia morte».
Quale?
«Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte».
Ne ha cantate di più belle: Occhi di ragazza, Un mondo d’amore, Scende la pioggia...
«Ma per gli italiani quella resta la canzone che mi rappresenta di più. Perché si canta sorridendo».