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 2024  aprile 30 Martedì calendario

Intervista a Gianluigi Buffon

Una giacca azzurro Italia, in mano un accendino con cui gioca passandoselo tra le dita. Gianluigi Buffon sta per chiudere i primidodici mesi della sua vita senza partite, senza calcio giocato, senza agonismo.
Buffon, come l’ha vissuto questo primo anno senza pallone?
«L’ho vissuto bene, era come me lo immaginavo. I vuoti che incontri dopo che per trent’anni hai avuto una vita scadenzata devi cercare di riempirli in modo più proficuo possibile. E credo di averlo fatto molto bene».
C’è qualcosa di sé che ha scoperto in questo anno?
Ci pensa a lungo, poi risponde sicuro: «No, per me il dopo calcio si sta manifestando con entusiasmi che immaginavo e alcune volte delle malinconie. Sono inevitabili, dopo gli anni vissuti. Non bisogna abiurare il proprio passato: va ricordato, è qualcosa di importante.
Ma la verità è che la proiezione deve essere sempre positiva, su presente e futuro».
E il futuro come lo vede?
«Diciamo da direttore sportivo?
Dirigente? Metto il punto di domanda, ancora. Ma comunque all’altezza della situazione nelle cose che mi piacciono. Di sicuro voglio essere operativo, non mi piace essere passivo».
Come ha capito quale fosse il momento di dire: smetto?
«Me lo sono chiesto per anni. E ci sta che qualcuno possa dirti “smetti”.
Ma io, fino all’ultimo giorno, mi sentivo forte come i migliori. Poi però iniziavo a farmi male più spesso: sono segnali che la natura ti manda, devi essere bravo a coglierli, e ad accettarli. Anche se a 45 anni, quando andavo in porta ero sicuro di dare alla squadra quello che davo a 30 o a 20. E se si perde qualcosa dal punto di vista fisico, si recupera in esperienza e leadership».
Ha visto Nadal? Pensa sia in quel momento in cui è difficile accettare che sia finita?
«Penso che Nadal, vedendosi tutti i giorni, sappia di poter cogliere ancora grandi prestazioni. Magari il suo obiettivo è avere continuità per 3-4 mesi per vincere un altro Slam.
Lui non ha bisogno di conquistare altro, come non ne avevo bisogno io: avrei potuto smettere cinque anni prima, sarebbe stato uguale».
Diciamo la verità: i giocatori hanno il complesso di onnipotenza?
«Ho sempre parlato col Gigi bambino e ho sempre avuto la sensazione di essere un fortunato.
Avevo una sorta di timore reverenziale della vita e del lavoro che non mi ha mai fatto sentire così speciale. Mi sono sentito un fortunato che ha saputo lavorare bene su se stesso, su doti naturali che il destino ha voluto donarmi».
A proposito del Gigi bambino: qual è il primo ricordo legato al calcio?
«Avrò avuto 4 anni. I miei, che facevano i professori e avevano due figlie più grandi, l’inverno mi mandavano in Friuli da nonni, zii e cugini. Quando tornavo parlavo solo friulano, avevo scordato l’italiano.
Erano juventini, avevano queste maglie vecchie, di una volta, bianconere. Mio cugino mi disse: dai, voglio farti una foto. Mi mise questa magliettona, con i pantaloncini,calzettoni e la bandiera. Ma io non capivo: non avevo ancora questa fascinazione del calcio».
E quando le è venuta?
«Penso nell’82: mi ricordo queste serate d’estate. Tutti si riunivano a guardare le partite, io restavo in terrazzo, era un terrazzo molto grande, a giocare a calcio. Ogni tanto sentivo urlare, urlare, e allora entravo. E lì è cambiato qualcosa. Mi regalarono una maglia di Paolo Rossi presa chissà dove, alle porte di Algeri. Quando la mettevo avevo l’impressione di avere poteri sovrannaturali. È stato il primo dei miei tre miti. Poi c’è stato Zoff».
E il terzo?
«Trapattoni. Da bimbo lo amavo, era una figura sui generis, fischiava, richiamava i giocatori, eraaccattivante».
Viene da pensare avesse una passione per la Juventus.
«Me l’avevano trasferita zii e cugini.
Ma a sette-otto anni ero già un bastian contrario, mi piacevano le cose difficili. La Juve vinceva sempre e quello un po’ mi infastidiva. A me piacevano le squadre di provincia: l’Avellino, l’Empoli di Ekström, il Como di Corneliusson».
Poi il Camerun del 1990 del suo mito N’Kono.
«Di quella squadra conoscevo a memoria tutta la delegazione: pensate che il premio per quel Mondiale lo hanno preso un anno fa, 33 anni dopo. Dai dodici ai venti anni ho amato il Genoa. Ma prima la squadra che ho seguito con più passione è stato il Pescara diRebonato, di Sliskovic. Mi piaceva anche il Campobasso. L’idea che queste realtà si fossero guadagnate la ribalta con fatica, col sudore mi commuoveva, mi faceva pensare che lo spirito e il coraggio di certi uomini fosse superiore ad altri».
E chi sono gli uomini da cui è stato ispirato?
«Quelli che hanno fatto scelte coraggiose, non convenienti. Come Alekos Panagulis: a suo modo, anche nella follia dell’uomo, è stato un eroe. E poi gente come Indro Montanelli, Oriana Fallaci, Gianni Mura: giornalisti che non mi lasciavano indifferente. Magari non sono modelli, ma sono persone che ti passano qualcosa di forte, che può condizionare in meglio la vita».
E qualcuno dei suoi miti, sportivi o
no, lo ha conosciuto?
«Mai conoscere i propri idoli. Si rischia una delusione bruciante».
Quando ha accompagnato Zaniolo e Tonali a consegnare i telefoni agli inquirenti del caso scommesse, cosa ha detto loro?
«Ho sdrammatizzato. Se hai sempre rispettato le regole certe cose ti offendono nel profondo. E già il fatto che uno si offenda è importante: ti rassicura di essere vivo e di avere ancora dei valori».
Negli anni hanno provato ad attaccarle etichette come fascista, nazista, scommettitore.
«Quando uno pensa che il mondo ce l’abbia con lui la prima domanda da farsi è perché. E la seconda è se ha prestato il fianco. Io sicuramente a volte sono stato leggero. Ma mirassicurava il fatto di sapere chi sono. E a volte mi prendevo licenze per questo».
Era voglia di trasgredire?
«Anche. Ho tanto paura quando vedo persone che conducono vite sempre ordinate, scandite: penso che prima o poi arrivino a un punto di rottura. Come essere umano hai bisogno di trasgredire. Di momenti in cui decomprimi. Se non lo fai mai, il botto poi è più grande: quante volte avete letto di persone modello che dal giorno alla notte fanno una strage?».
Quali sono le sue trasgressioni?
«La più grande? Non scegliere mai la strada scontata. Conciliare le ambizioni con la mia visione “romantica”: rimanere alla Juventus in Serie B o tornare al Parma, semprein B. Nella vita invece ho trasgredito molto meno. Mi piace chi rispetta le regole senza però rinunciare all’originalità di pensiero».
Lei però sembra impetuoso.
«Da ragazzo ero fatto e finito per società e ambienti del sud. Tipo Roma, Napoli, Bari. Mi alimentavo con la vicinanza della gente, anche quando diventava morbosità. Ma alla fine non sono mai approdato in una di quelle piazze. Mi hanno guidato mio padre e il mio procuratore.
Torino e la Juve mi hanno permesso di ritrovarmi in equilibrio. In una piazza incasinata, per come ero fatto, rischiavo che la bilancia tirasse solo da una parte».
Quindi anche per Cassano alla Juve sarebbe andata diversamente?
«Antonio è nato fuoriclasse e lo è stato sempre. Insieme abbiamo fatto Europei, un Mondiale, ci siamo divertiti da morire. Ma alla fine gli dicevo: Anto’, per fortuna che dura solo un mese, tenerti un anno così… Io ho vissuto solo la parte bella di Antonio. Poi chiaramente qualcosa che usciva c’era, glielo dovevi concedere, non puoi reprimere sempre tutti, stare dietro a un decalogo».
Le sue sliding doors?
«Nel 2001, dal Parma, avevo quasi fatto con la Roma. Era questione di dettagli. Poi anche col Barcellona.
Alla fine però sono andato alla Juve.
Poi nel 2005 c’è stata una grandissima società straniera che mi voleva, ma non l’ho presa in considerazione. Nel 2011 stavo di nuovo andando alla Roma: mi chiamò Montali, mi piaceva e con la Juve s’era rotto qualcosa. Poi però arrivò Conte e impose la mia presenza. Quando dal Psg sono tornato alla Juve stavo per andare al Porto. Avevo già visto i voli, la città. E altre due volte sono stato vicinissimo all’Atalanta. La seconda avevo deciso. Ma alla Juve mi conoscono come le loro tasche. Fecero una riunione: c’eravamo io, Paratici, Pirlo. Che mi disse: Gigi, cavolo, è il primo anno che alleno, sono venuto sapendo che c’eri tu… Cosa potevo rispondergli?».
Ora è iniziata la sua seconda vita in Nazionale: che Italia ha trovato?
«I ragazzi li avevo sottovalutati.
Hanno uno spessore umano incredibile e non lo avrei detto. E anche dal punto di vista tecnico sono più bravi di quanto si pensi fuori: siamo un’ottima squadra. Dire oggi che vinceremo con certezza sarebbe ridicolo. Ma avremo cuore e logica».
Spalletti è come lo immaginava?
«Un carattere molto forte, carismatico, a modo suo. Il leader della squadra. È difficile andare in contrapposizione con lui. Poi lo conosci e cogli aspetti umani che ti fanno capire la sofisticatezza dei suoi ragionamenti e quindi delle decisioni che prende. Chiunque lo abbia avuto, dice che è eccezionale. C’è qualcosa di speciale in lui».
Il calcio le è mai entrato in casa?
Cosa ha dovuto spiegare ai figli?
«Le scelte. Tipo Parigi, tipo tornare alla Juve, tipo accettare di fare il secondo alla Juve per due anni, tipo andare in B per il Parma. Ai miei figli ho spiegato il motivo per cui le facevo, mi auguro che per loro sia un patrimonio a cui attingere qualcosa di buono».
Ad esempio?
«Da dirigente se dovessi riprendere un giocatore per un comportamento non corretto potrei dirgli: se ho fatto panchina io, credimi, puoi farla anche tu».