La Stampa, 30 aprile 2024
Le faccette di Meloni. L’analisi di Stefano Bartezzaghi
«Sono una donna del popolo», dice Giorgia Meloni. Con l’accento romano, la gestualità, la mimica che da sempre contraddistinguono la sua politica. Chi la conosce da prima che diventasse premier le ha visto fare ottime imitazioni di colleghi parlamentari. Chi ne ha seguito l’ascesa racconta di una innata “simpatia”. Il “linguaggio” di Meloni, l’uso della voce, quello del corpo, sono quindi una delle chiavi per comprendere il suo esercizio del comando. Stefano Bartezzaghi, scrittore, professore di semiotica della creatività all’università Iulm di Milano, la decodifica così: «Tutto in lei comunica schiettezza».
La posa da «donna del popolo», l’accento, l’uso di parole semplici, sono un modo per avvicinare il maggior numero possibile di elettori?
«Degli elettori non so dire. Non è mai facile comprendere quanto una comunicazione riuscita si tramuti poi in successo politico. Certo il linguaggio di Meloni è molto connaturato al suo personaggio e dice schiettezza. Come ci fosse una presa diretta tra il sé e la sua immagine. E questo in tempi così disintermediati aiuta molto».
Le dà un vantaggio sugli avversari?
«Di certo risulta più efficace del linguaggio attento di Elly Schlein, che proprio perché attento appare paludato. Non è paragonabile ai segretari di un tempo, ma non è diretto come quello della leader di Fratelli d’Italia».
Che linguaggio è quello di Meloni?
«È fatto innanzi tutto della “calata” romana. Al di là di quello che dice, potrebbe leggere anche la Costituzione italiana, il romanesco è il suo tratto distintivo».
E non è un limite?
«No, perché il romanesco è diventato lo stile locutorio dominante in Italia. Tutte le prese in giro dei milanesi che non distinguono tra “sticazzi” e “mecojoni” discendono da questo: è la lingua di Zerocalcare, la lingua franca che tutti devono essere in grado di capire».
Ci sono anche precise scelte lessicali.
«Le parole nazione, patriota, ma direi che questo viene dopo. Prima ancora ci sono il tono e la mimica, le faccette, gli occhi».
Per comunicare cosa?
«L’uso teatrale del corpo e della voce di Meloni è inclusivo. Non nel senso femminista o di genere, ma nel senso che si dà l’obiettivo di includere, di coinvolgere più persone possibili».
È capace di allargare più di quanto non sappia fare la sinistra?
«A sinistra il famoso “ma anche” di Walter Veltroni voleva essere questo. All’epoca della fondazione del Pd portò polemiche, ma era un intento sano. Solo che lì devi esplicitarlo, assume una forma verbale. In questo caso sono solo ammiccamenti».
Quali ammiccamenti?
«Quando la premier dice: sì vabbé diciamolo, siamo contro tutti i totalitarismi. Ma col tono di dover adempiere a qualcosa che le viene richiesto. Per non farselo chiedere più. E mentre lo dice, fa capire che le cose non stanno esattamente così».
Sembra un paradosso: un’ambiguità che passa attraverso un linguaggio schietto.
«Il rifiuto di pronunciare la parola antifascismo è come la fiamma nel simbolo: qualcosa su cui resiste e riesce a essere al tempo stesso istituzionale e movimentista. Si può fare solo da destra».
Perché a sinistra no?
«Sarebbe come avere un segretario del Pd che fa discorsi cercando di coinvolgere i fan delle Brigate Rosse o dell’anarchico Alfredo Cospito. Impossibile. Perché a sinistra sono capaci di essere d’accordo su tutto e litigare sullo 0,1 per cento su cui non sono d’accordo. A destra, tutto si copre».
Con un linguaggio tanto diretto quanto omissivo?
«In questo momento è il dispositivo che ha sostituito i modi da imbonitore e latin lover del grande federatore precedente».
La schiettezza di Meloni sostituisce la seduzione di Berlusconi?
«Viene da lì. Come la modalità truce del modello Papeete di Salvini, che invece si è consumata velocemente».
Anche l’oratoria di Meloni però è quella di un capo: accentra tutto su di sé, chiede di scrivere solo il suo nome sulla scheda, non dirà di essere un capitano, ma usa parole guerresche definendosi un soldato.
«C’è una contraddizione che finora ha retto benissimo. La domenica a Pescara dice: chiamatemi Giorgia e crea un brand elettorale di tipo familiare, confidenziale; il lunedì a Roma lavora a riforme istituzionali che esautorano il Parlamento e tolgono al presidente della Repubblica il suo potere di arbitro. Queste sono le cose che inquietano perché erodono la lingua comune della democrazia».
In questo vede predecessori?
«Ha cominciato sempre Berlusconi importando in politica le tecniche della competizione e della concorrenza, non sempre leali, del commercio. Fa parte di questo schema il rifiuto di riconoscere gli avversari, che definiva tutti “comunisti”. L’appropriazione di valori comuni come la libertà, la stessa nazione (Forza Italia), che così diventavano di parte».
Dopo di lui?
«Salvini ha tentato di fare la stessa cosa con l’arroganza, che però a un certo punto è diventata troppo manifesta. Meloni è più attenta e al tempo stesso più simpatica. Ha l’aria di quella che non la mette giù dura, pur mettendola giù durissima».
Lo descrive come un incantesimo. Ha una durata?
«Il limite di queste operazioni è che a un certo punto si vedono».
Tutto il discorso di Meloni è giocato contro un “loro” che sono a turno la sinistra, le istituzioni europee, i poteri forti, la farina di grillo. Come può essere un messaggio tanto credibile quando si è al potere?
«Lo è finché non si intravede che il “loro” non c’è più e che l’ambizione è quella di inglobare tutto. A quel punto dovrebbero venir fuori gli anticorpi. Alla fine neanche Berlusconi è riuscito a realizzare il suo disegno egemonico. Ha avuto successo in tutto tranne che in quello. Si tratta di vedere se il tempo logorerà questo tipo di messaggio».
L’underdog? Lo svantaggiato solo contro il mondo cattivo che difendendo se stesso difende il popolo?
«Quello. Io sono sempre stato convinto di una legge generale della tarda modernità, e cioè che le stesse doti che sono necessarie per vincere le elezioni sono quelle che escludono che tu possa governare bene».
Così però la democrazia è un comma 22.
«In questo si vede giù un’estrema difficoltà della premier. A una comunicazione azzeccata spesso non seguono provvedimenti adeguati. Nel frattempo, la sinistra è persa dentro incomprensibili liturgie interne».
Come se ne esce?
«Comincio a sospettare che siano difficoltà strutturali del discorso di sinistra, dov’è difficile immaginare qualcuno capace di parlare a tutti. C’era riuscito Prodi, ma veniva da fuori, era un professore. Le figure come la sua adesso si sono ritirate anche anagraficamente e chi resta ha una cultura istituzionale un po’ diversa, un po’ carente».
Tornando a Meloni, ci sono errori nella sua comunicazione?
«La sua è una modalità da campaigner. Ammicchi e mossette servono nel momento in cui hai bisogno di una posa istituzionale, ma devi anche tranquillizzare i simpatizzanti di Forza Nuova dicendo col corpo: voi sapete chi è la vera Giorgia. Solo che se devi rappresentare tutti gli italiani, devi essere capace di rivestire una doppia identità. Ricorda il discorso di Onna?».
Il più istituzionale di Silvio Berlusconi.
«È stato il momento in cui è riuscito a incarnare l’istituzione al di là di tutto quel che era stato fino ad allora. Non c’è ancora stata un’Onna di Meloni. Dovrebbe riuscire a essere schietta anche nel suo profilo istituzionale, ma è lì che le scappa la faccetta». —