il Giornale, 30 aprile 2024
Ecco i veri maledetti per i falsi editori
Munifici di suggestivi aggettivi, quelli di Gallimard presentano l’ultima perla. Si tratta di un inedito di Jean Genet, s’intitola Héliogabale, racconta la storia di Eliogabalo, appunto, eccentrico imperatore romano nato Marco Aurelio Antonino Augusto dedito a riti erotici in onore di El-Gabal, divinità solare siriana; i pretoriani, infastiditi dall’eccentrico sovrano, lo scannarono nel 222. Il testo è stato appuntato da Genet nel 1942, nel carcere di Fresnes, mentre scriveva Notre-Dame des Fleurs, opera prima di spiazzante potenza. Genet tentò di far pubblicare il testo senza successo; è stato ritrovato scavando tra gli archivi della Houghton Library, Harvard.
La pièce è presentata come un «classico». Il curatore, François Rouget, ci avvisa che il modello di Genet è Racine, che il diretto antecedente è l’Eliogabalo di Antonin Artaud (edito da Denoel nel 1934, in Italia lo stampa Adelphi), più possente ma meno poetico.
Genet, scrittore votato allo scandalo, è inghirlandato da Gallimard con la didascalia, «autore di culto». Un tempo, anche da noi Genet era uno scrittore a cui rendere culto: Mondadori pubblicava i suoi romanzi più celebrati, Diario del ladro sostava nella mitica collana Medusa tra Lolita di Vladimir Nabokov e Il nostro agente all’Avana di Graham Greene. Oggi dobbiamo ringraziare il Saggiatore se possiamo ancora leggere Querelle de Brest e Miracolo della rosa; libri memorabili come Pompe funebri, di miracolosa violenza, sono di fatto introvabili. La mia edizione di Pompe funebri è quella Mondadori del 1981, tradotta da Giorgio Caproni, il grande poeta, amico di Pasolini, già traduttore di Céline.
Genericamente, la percezione è che l’editoria italiana si stia conformando al conformismo imperante. In letteratura, oggi, vince l’iddio dell’ovvio, il lamento a stantuffo, l’impegno a comando, come zucchero a velo, la velina ideologica con irenismo a fiotti. Così, i più vigorosi scrittori d’oltralpe vengono castamente ignorati. Snocciolo qualche nome. I consoli della letteratura provocatoria, perturbante sono Marcel Jouhandeau e Henry de Montherlant (a dire di Ernst Jünger, i più grandi «stilisti» del canone francese). Jouhandeau scriveva disseminando serpi; Montherlant eccelleva in sprezzatura. Del primo leggiamo, in Italia, libri sublimi ma residuali (Cronache maritali, stampa Adelphi, chi lo trova in libreria vince un premio); nessuno osa affrontare i micidiali Journaliers (memorie porno-ciniche scritte tra il 1957 e il 1974 in una trentina di volumi), ma neppure libri di torbida superbia come De l’abjection o Éloge de la volupté. Quanto a Montherlant, pubblicato decenni fa da Mondadori, resta nel seminario di piccoli, coraggiosi editori (Settecolori, De Piante, Aragno); libri di truce bellezza come Il Caos e la Notte (un tempo Bompiani) e La Rose de sable sono svaniti tra l’iniquità dei pavidi.
Se veniamo all’oggi, il risultato non cambia. Gli scrittori francesi più scomodi sono eliminati dal dibattito editoriale italiano. Tutti leggono Annie Ernaux (scrittura liquefatta, che non vale un paragrafo della Yourcenar) e continuano a ignorare Richard Millet, autentico paria delle lettere francesi, autore di romanzi miliari (La Confession négative, ad esempio, Gallimard, 2009), fatto fuori, letteralmente, dalla cricca gauche dopo aver scritto il caustico Éloge littéraire d’Anders Breivik. Per fortuna, Liberilibri ha ripubblicato uno dei suoi saggi più duri, L’antirazzismo come terrore letterario (a cura di Renato Cristin, pagg. 96, euro 15). Il tema è il consueto: l’intolleranza dei tolleranti; Millet lo svolge con esubero di genio.
E poi c’è Gabriel Matzneff, discepolo di Montherlant, pedofilo, pederasta, idolatrato come un guru per un po’, poi appiccato alla gogna. In esilio, in Italia, da anni, Liberilibri ha stampato, nel 2021, sotto gli auspici di Giuliano Ferrara, Vanessavirus; forse trovate ancora nel mercato secondario I minori di sedici anni (ES, 1994); il resto non lo leggerete mai su queste sponde.
Se è per questo, non leggerete nulla nemmeno di Philippe Muray. Lunare, urticante saggista, idolo di Michel Houellebecq (provocatore col tutù, che recita a soggetto la parte dell’avvocato del diavolo), già negli anni Novanta stigmatizzava l’omologazione progressista, l’ossessione della «trasparenza, la parola più schifosa oggi in circolo», la «criminalizzazione del sesso», il delirio repressivo legalista. In Italia, Mimesis ha tradotto, nel 2017, L’impero del bene; in Francia i suoi libri compreso l’immane diario, Ultima Necat, scritto come estremo rifugio dell’artista, per «moltiplicare pensieri clandestini», opera di banditismo intellettuale contro «la società, megera ripugnante» non sono editi da tipografie di fronda, ma da Les Belles Lettres, uno dei più autorevoli editori al mondo di classici antichi.
Non stupiamoci. In Italia gli scrittori non ascrivibili alla norma sono vilipesi in liofilizzazione antologica (penso a come hanno disinnescato l’incendio Pasolini e l’eresia Testori). Ci accontentiamo dei romanzi puberali di Emmanuel Carrère, mere pacche sul pacco; nessuno s’impania nell’opera di Pierre Guyotat (1940-2020). Nel 1970 il suo Éden, Éden, Éden fu ritirato dal commercio dal Ministero dell’interno francese: raccontava, in eccesso stilistico eccezionale, l’Algeria, «lo stupro dei vivi e dei morti, il crimine passionale, l’incesto, la fame»; coagulava trincea e bordello, prostituzione e «stato del terrore assoluto». Il libro fu sostenuto da Pasolini, Genet, Blanchot, Sartre e Joseph Beuys; le maglie della censura si allentarono soltanto nel 1981. Tra i sommi autori francesi contemporanei, Guyotat è un pilastro del catalogo Gallimard: nel 2022 è uscito Depuis une fenêtre, ultimo tomo del ciclo Joyeux animaux de la misère. In Italia è sconosciuto: nel 2009, senza esiti, Medusa ha tradotto Coma. Comatoso, piuttosto, è lo stato della letteratura nostrana, vacca senza capezzoli guidata da uno stuolo di lacchè.