la Repubblica, 29 aprile 2024
Non c’è più la censura di una volta
«Neanche una censura riescono a fare». Il modo più efficace di difendere o solo di fiancheggiare una censura è sottovalutarla e, per esempio, deridere i funzionari meloniani della Rai perché non hanno avuto la competenza e la sapienza di censurare “bene” Antonio Scurati: «Non sono censori, sono tontoloni».
Poveretti, dunque, che non conoscono il Malleus Maleficarum e non hanno neppure la famosa simpatia – “ciao core” si dice a Roma – di Berlusconi, né la presunta morbidezza della Rai di Agnes e di Bernabei (che in realtà era servile e violenta, ma questa è un’altra storia, un’altra finzione). La repressione della satira o del dissenso, si tratti di Tognazzi e Vianello, di Dario Fo o di Biagi, Santoro e Luttazzi, o ancora di Scurati, per quanto possa raffinarsi, ha sempre il tratto rozzo e maldestro dell’obbedienza a un comando “non dato”. Questo non significa che ci si debba indignare solo con i lampi e i tuoni della retorica e non farsi invece beffe dei censori: la dignità della risata e l’arguzia della satira rimangono i loro nemici migliori.
Giuseppe Antonio Borgese, che fuggì dall’università e dall’Italia, derideva sia il censore Mussolini sia i professori che avevano accettato la censura: «Su un totale di 1256 solo 13 si rifiutarono di giurare» e così «quasi tutti i professori universitari d’Italia furono, anima e corpo, alla mercé di Mussolini, maestro elementare». Lo sbeffeggiamento, insomma, svela la censura, ma, attenzione, può diventare un’astuzia del potere quando la vela. È evidente che ridurre la repressione del dissenso a minchionaggine di un funzionario zelante, sghignazzare sull’idiozia servile di un ridicolo capro espiatorio che “lavora” (si fa per dire) in Rai, serve solo a “spuntare” la censura sino a negarla. E infatti il potere, cioè Giorgia Meloni, si è subito dissociata dalla censura fatta in suo nome: «Non mi occupo di Rai», e l’Ufficio Informazione del fido Fazzolari («il mio Rasputin») ha distribuito le solite veline con il “suggerimento” non solo di metterla sui soldi, ma soprattutto di deridere, deridere, deridere, a cominciare dall’effetto boomerang che reprime e al tempo stesso promuove il censurato (ed è sempre vero, come sanno gli scrittori che non hanno il nome e il successo di Scurati e sarebbero felici di “subire” almeno una censura: “mitoo”). Di natura sua, il riso mina il potere, questo è il punto di partenza. Ma non sempre è vero. In Italia la risata è un laboratorio, e basti pensare a Beppe Grillo che da folletto che sbeffeggiava il potere divenne potere che sbeffeggiava. E prima c’erano state le barzellette di Berlusconi, le battute di Andreotti, la comicità ruffiana del Bagaglino, risata di regime. In Italia la satira ha sostituito la politica, e non c’è bisogno di Kant, Pirandello e Baudelaire per capire che è un’arma a doppio taglio. Sottovalutando la censura a Scurati, anche i comici più popolari come Fiorello e Crozza non hanno castigato, ma promosso ridendo mores.