la Repubblica, 29 aprile 2024
Arrendersi o capirli. In crisi anche i prof “Purtroppo parliamo linguaggi diversi”
Sono scesi dalla cattedra, e per forza. «Fare l’insegnante senza avere le capacità di entrare in empatia con loro oggi è impossibile». Pamela Cerulli insegna da 16 anni latino e greco, le prof più temibili si direbbe. «Ho consegnato versioni anche con il 3, ma non prima di aver aperto un dialogo, non è mai un giudizio definitivo, come educatore devi scegliere di sottolineare i miglioramenti e non devi mentire, cercano in te una guida sicura perché i ragazzi sono più fragili». Per questo Josita Bassani ha lanciato l’allarme tra i suoi colleghi del tecnico di Cremona: «Basta un niente e uno spacca un labbro a un compagno, è successo anche l’altro giorno, non sanno dare un nome alla loro rabbia, se li porto nell’aula teatro e chiedo loro di abbracciarsi si spintonano, ridacchiano, non ce la fanno. Sono analfabeti emotivi. I ragazzi stanno molto male e noi siamo a disagio a vederli così. Vanno intercettati come la scuola non sta riuscendo a fare».
Il solco tra la cattedra e i banchi scavato da questa generazione che sta male interroga i prof, li mette in crisi. Le riunioni di inizio anno cominciano con gli sbuffi, «prenderò tutta la 104», «non vedo l’ora di andare in pensione». Chi ci prova dà l’anima e ci riesce ma con sempre più fatica, talvolta in solitudine, sommerso dalla burocrazia. «Ma tanti di noi entrano in aula già sconfitti e frustrati». Chi tira dritto e chi soccombe, perché a tenere classi al biennio da 25-30 studenti e altrettante sfumature di ansia, provateci voi.
Il Covid ha segnato una svolta, «ma non è tutto riconducibile a quello» ragiona ancora Pamela Cerulli, docente all’Amaldi di Roma. «Certo è che ci pongono di fronte a una sfida. Dicono che non li capiamo ma dipende anche da che insegnante scegli di essere. Non siamo psicologi, animatori, amici. Dobbiamo metterci in gioco come educatori».
Cosa si vede dalla cattedra? Non hanno più le parole, insistono le insegnanti di Lettere. Tempo di attenzione? Dieci minuti, poi li hai persi. La scuola si è rotta. «E ci siamo rotti anche noi», aggiunge Gabriella Fenocchio che insegna Italiano da oltre 30 anni, «è sempre peggio, alzo bandiera bianca». Ha letto i questionari del suo liceo: «Emergeva il loro disagio, anche che si sentono numeri. Posso capirlo, ma mi sembra più una loro percezione perché non li trattiamo così. La realtà è che noisperimentiamo una barriera sempre più alta, a partire dal linguaggio tra noi e loro». La diagnosi dei docenti delle superiori è corale: famiglie iperprotettive, complici o assenti, dipendenza da cellulare («scrollano il registro elettronico come TikTok e Instagram»), e certificazioni a pioggia, il malessere fatto patologia. «Siamo sommersi da certificati di qualsiasi tipo, pressati da genitori che ci chiamano: non interrogate mio figlio o ha fatto solo una bravata».
Rispetto all’impegno nello studio è tutto troppo. «Assecondo le loro fragilità, ma non è il loro bene – continua Gabriella Fenocchio – Leggo la metà dei testi degli autori che leggevo anni fa, spiego tutto perché non sanno il significato di parole come prodigo, plausibile, vulnerabile. Dopo una pagina c’è già chi alza la mano: prof, mi sono persa».
Racconta Federica Viscusi, 56 anni, di ruolo dal 2007: «Sono terrorizzati dal giudizio degli altri, crescono nella deresponsabilizzazione totale. Per qualcuno è la prima volta in un museo, in un tema mi sono ritrovata TikTok citato come fonte. Arrivano alle 8 storditi, alle 12 sono già sdraiati sui banchi, non è raro chi si addormenta. Ogni 5 anni abbasso i ritmi di lavoro e il livello, con la prima sono ancora ai greci. La scuola è in affanno, e noi ci barcameniamo».
Questo sebbene Federica Viscusi sia una prof che sperimenta, al Bosso- Monti di Torino ci sono i mentori che lavorano sulla motivazione e ore di supporto all’italiano, non solo per gli stranieri. Non c’è istituto che non ricorra agli psicologi, centinaia i progetti, le innovazioni. «Ma non si riaggiusta nulla se non cambiamo paradigma su tempi e spazi della scuola» avverte il preside Roberto Fiorini. «E se non cominciamo a valutarli oltre le verifiche» aggiunge la collega Alessandra Francucci.
Enzo Arte, prof di Matematica, ha indicato una strada: la scuola senza voto. «Se si continua a non cambiare nulla la distanza coi ragazzi aumenterà. La politica dovrebbe metterci nelle condizioni di reagire». Tradotto: stipendi più alti, classi meno numerose. Christian Raimo, prof e scrittore, li osserva: «Vedono video Asmr dove si simulano esperienze sensorial, in classe si fanno i grattini. Sono soprattutto figli unici o di genitori separati, pochi hanno i nonni, sperimentano precocemente l’esperienza di stare da soli ma passano all’autonomia senza aver avuto l’accudimento».
Gli adulti, dunque. Giancarlo Visitilli, prof al liceo Pietro Sette di Bari, è netto: «L’ansia da performance ce l’hanno i genitori. E noi? Impensabile non avere anche competenze psicologiche, dobbiamo ripartire dalla nostra formazione. Abbiamo avuto l’occasione di ricominciare dallo spegnimento dei ragazzi dopo il Covid e invece siamo tornati all’idea di una scuola caserma, dove tutto è una gara».