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 2024  aprile 29 Lunedì calendario

Franco Di Mare ha parura di morire

«Mi resta poco da vivere, ma non ho paura. Il 28 luglio compirò 69 anni, non so se ci arrivo. Forse sì. Sono sereno... Mi spaventa l’idea della sofferenza». Racconta così, dosando il respiro, Franco Di Mare, 68 anni, ex inviato di guerra e conduttore tv. Accanto una grossa bombola con le rotelle che lo segue ovunque vada, nel naso un tubicino trasparente. «È il mio polmone, ora». Le parole per dirlo, il titolo del suo libro che esce domani.
«Ero seduto davanti alla sua scrivania. “Houston, abbiamo un problema”, mi disse il professore. “Francesco, non so come dirtelo. In questo momento vorrei tanto essere l’animatore di un villaggio e non un dottore. Hai un mesotelioma. Aggressivo”. “Quanto?” “Alto grado”».
Ha capito subito.
«Sapevo bene cos’era. Mi sono piegato in avanti, muto, con le mani sulla testa. E il prof si è incazzato. “Ehi! E che è adesso? Si reagisce, si combatte, vedrai che ce la facciamo”». Franco Di Mare, 68 anni, ex inviato di guerra e conduttore tv, deve dosare il respiro, quando parla. «Ho un tumore che non lascia scampo. Mi resta poco da vivere, quanto non lo so. Però non mollo. Confido nella ricerca». Accanto a lui c’è una grossa bombola con le rotelle, che lo segue ovunque vada. Nel naso ha un tubicino trasparente. «È un diffusore di ossigeno, è lui ora il mio polmone. Prima mi aiutava soltanto di notte. Da una decina di giorni invece non posso più staccarmi. Sono legato come gli astronauti. A guardarlo bene assomiglia a R2-D2, il robottino di Guerre Stellari». Il cagnetto Lili gli saltella intorno.
Lo chiama per nome, il suo nemico.
«Quando ero piccolo, in famiglia si abbassava la voce: “Quella persona ha un brutto male”. Come se, nominandolo, il mostro ti entrasse in casa. Io invece sono diretto. Ho un cancro. Oggi ci si cura e spesso si guarisce. Da questo no. Non se ne va, al massimo lo puoi rallentare, ma resta lì ed è uno dei più cattivi».
«Perché a me?». Lei ha trovato la risposta.
«Perché sono stato a lungo nei Balcani, tra proiettili all’uranio impoverito, iper-veloci, iper-distruttivi, capaci di buttare giù un edificio. Ogni esplosione liberava nell’aria infinite particelle di amianto. Ne bastava una. Seimila volte più leggera di un capello. Magari l’ho incontrata proprio a Sarajevo, nel luglio del 1992, la mia prima missione. O all’ultima, nel 2000, chissà. Non potevo saperlo, ma avevo respirato la morte. Il periodo di incubazione può durare anche 30 anni. Eccoci».
Ci ha scritto un libro che esce domani: «Le parole per dirlo» (Sem, Feltrinelli).
«Per raccontare le guerre fuori da me e quella dentro di me. Un piccolo dizionario esistenziale. Senza pietismo. È il mio testamento».
Un pomeriggio qualunque di tre anni fa.
«Ero seduto qui su questo divano, guardavo un programma scemo in tv. Una fitta terribile mi è esplosa tra le scapole, una coltellata. Credevo fosse un dolore intercostale. Invece era il collasso della pleura, uno pneumotorace. Pensai: non è niente, passerà. Ho cambiato posizione, mi sembrava di sentirla meno. Ci ho dormito su, però respiravo male. Credevo di avere il Covid, ma i test risultavano negativi. Dopo 20 giorni così, mi decisi a fare dei controlli al Policlinico Gemelli».
E lì?
«Mi hanno sottoposto a delle prove sotto sforzo. Dopo una sono svenuto. Di corsa in sala raggi per una radiografia. Al posto del polmone destro c’era il nulla. Era collassato insieme alla pleura, la pellicola che lo avvolge. La cassa toracica per metà era vuota. Hanno provato a pompare aria per risollevarlo, non è bastato. Lo hanno riattaccato con una sorta di spillatrice. Prima però hanno fatto una biopsia del tessuto. E infine la diagnosi che non mi lascia scampo».
Mesotelioma, appunto.
«La malattia era contenuta nella pleura, a parte due puntini in cui era perforata. E da lì, maledizione, il tumore è uscito. La decorticazione mi ha regalato due anni di vita. Poi però, sei mesi fa, c’è stata una recidiva. Si è presentata allo stesso modo. Una fitta acutissima. Stavolta a sinistra. Respiro con un terzo della capacità polmonare».
Non può più stare senza questo macchinario.
«Fino a venti giorni fa uscivo a fare la spesa. Due passi. Al massimo tenevo con me il respiratore portatile, che pesa 15 chili. Ma dura un’ora e devi sperare che non si blocchi. Una notte è successo, me la sono vista brutta. Ora non ho più autonomia. Ero un uomo molto attivo. Guardi, sto in ciabatte perché ho i piedi così gonfi che non mi entrano le scarpe, io che da buon napoletano ero sempre elegante».
Scrive che questo male se l’è quasi andato a cercare.
«Senza volerlo, perché ero del tutto ignaro del pericolo, sotto quel cielo dei Balcani sempre grigio polvere. Respirando l’aria della notte, mentre dormivo su brandine infilate tra i cingoli dei carrarmati o nelle fabbriche sventrate. Ma era il mio lavoro».
Inviato di guerra.
«La prima volta che io e l’operatore Antonio Fabiani siamo partiti per Sarajevo, non avevamo che microfono, telecamera, cassette e batterie. Appena scesi dall’Hercules C-130 lui convinse un collega francese a vendergli un giubbotto antiproiettile a 200 dollari. Lo indossavamo a turno. Ce lo giocavamo a morra».
Il momento più brutto di questi ultimi tre anni.
«Dover dire a chi ami che il male è curabile ma non risolvibile. Puoi allungare il termine del giorno, non procrastinarlo all’infinito. Il tempo che abbiamo è prezioso, te ne accorgi solo quando te ne stai andando. E decidi di non sprecarne più nemmeno un istante».
Scrive: «Noi malati abbiamo sguardi più profondi e leggeri di voi sani».
«Perché guardiamo gli altri con occhi diversi, più indulgenti, comprensivi».
«Chi è malato si innamora del mondo».
«Nella malattia il tempo è rallentato, impone il suo ritmo, sei più attento, vedi cose che prima trascuravi. Oggi mi piaccio molto di più. E mi faccio rabbia. Non potevo essere così anche prima? Dovevo aspettare di ammalarmi?».
Ha rimpianti?
«No, ho avuto la fortuna di fare il lavoro che sognavo, di vivere cento vite».
Non è riuscito a...
«A visitare l’Antartide. A imparare a suonare il piano come Stefano Bollani. E a vedere le isole Fiji. Mi piaceva fare immersioni, ora mi manca il respiro, che paradosso».
Odia il suo tumore?
«No. Capisco che è un aspetto di me, uno dei tanti. Il male fa parte della natura. Ma io non sono la mia malattia».
È sdegnato dai vertici Rai.
«Quando mi sono ammalato ho chiesto di avere lo stato di servizio, con l’elenco delle missioni, per supportare la diagnosi. Ho mandato almeno 10 mail, dall’ad al capo del personale. Nessuna risposta».
Silenzio.
«Con alcuni prendevo il caffè ogni mattina. Ero un dirigente come loro, direttore ad interim di Raitre. Gli ho scritto messaggi sul cellulare chiamandoli per nome: “Ho una malattia terminale”. Mi hanno ignorato. Ripugnante, dovrebbero vergognarsi. Peraltro il palazzo di viale Mazzini è pieno d’amianto. Sottovoce, ti sconsigliano di appendere quadri al muro».
Assapora i ricordi.
«Mamma Maria che preparava la parmigiana di melanzane. Le metteva in fila nella teglia. E io, in ginocchio sulla sedia, versavo il sugo con un mestolino. Quel profumo lo sento ancora adesso».
Nonostante tutto.
«Faccio una vita bellissima, sa? Sto con le persone che amo. Le mie care sorelle. Sono protetto e accudito, mi sento un piccolo sultano. Ci fissiamo sempre col primo amore – il mio, al liceo, fu una ballerina del San Carlo – ma il più importante è l’ultimo, che ti accompagna nei passi finali. Per me è Giulia. Stiamo insieme da otto anni. Tra noi ce ne sono più di 30 di differenza, prima si notava meno». La bella ragazza bruna si avvicina: «Amore, senti freddo?».
E ha intorno tanti amici.
«Ci vogliamo bene. Vengono a cena. L’altra sera ho cucinato linguine alla salsa di pane con calamaretti spillo. Fame ne ho tanta, con tutto il cortisone che prendo. Gli oncologi mi hanno concesso un calice di vino rosso a sera».
Il calendario lo guarda?
«No, il 28 luglio compirò 69 anni, ma non so se ci arrivo. Forse sì. Sono sereno, non ho paura. Mi spaventa l’idea della sofferenza, però sono andato a una dozzina di funerali di colleghi più giovani di me. E sono vivo per miracolo. Durante una sparatoria tra bande in Albania, un proiettile mi è passato dietro al collo. Non sono morto perché mi sono chinato a prendere una batteria nella borsa. Mi ritengo un uomo fortunato».