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 2024  aprile 28 Domenica calendario

L’industria degli influencer

L’86 per cento degli americani fra i 13 e i 38 anni, dice un sondaggio del 2019, sarebbe disposto a pubblicare dei contenuti sponsorizzati, in cambio di soldi. Oggi, probabilmente, quella percentuale è salita ancora: insomma, circa nove americani su dieci farebbero volentieri l’influencer. Una professione nata nel nuovo millennio, esplosa dal 2008 e, ancora di più, dagli anni del Covid in poi. Come e perché questo sia accaduto lo racconta Emily Hund, ricercatrice del Center on Digital Culture and Society all’Università della Pennsylvania e consulente di gruppi industriali, accademici e governativi (perché di consigli sul mondo digitale hanno bisogno tutti, perfino la Casa Bianca...), in un saggio che è frutto di sette anni di indagini e studi e di numerosissime interviste a persone del settore e il cui titolo è già l’affermazione di un fenomeno: L’industria degli influencer (Einaudi, pagg. 238, euro 22). Nelle parole di Hund, l’«economia degli influencer» è emersa «come un centro di potere legato a ricompense economiche e sociali tangibili e fondato su una rete dominata dai social media e dalle immagini». Ma non c’è soltanto l’aspetto economico (che è enorme): c’è anche una questione più sociale/antropologica, a cui rimanda il sottotitolo, «La ricerca dell’autenticità sui social media». È quella che Hund definisce «la filosofia dell’industria degli influencer», ovvero «l’idea che chiunque possa coltivare un pubblico fedele offrendo contenuti coerenti e riconoscibili sui social media, e poi utilizzare i like, i follow e altre metriche di coinvolgimento di quel pubblico come prova di un’influenza su cui fare leva per ottenere una serie di gratificazioni sociali ed economiche, molte delle quali raggiungibili mediante la collaborazione con i marchi commerciali e attraverso la commistione dei loro messaggi con i propri».
Sfruttare un’immagine pubblica che sembri «autentica» è una strategia antica, e tipicamente americana. Come è diventata così vincente? Nella ricostruzione storica di Hund, intorno al 2008 si è creata una concomitanza di fattori: la crisi dei mutui subprime, il crollo di un sistema economico, la conseguente sfiducia nei confronti delle istituzioni consolidate, la ricerca di informazioni che subisce un’impennata in una direzione nuova: «Le persone erano affamate di contenuti, che dovevano però provenire da fonti che fossero vere, che dimostrassero di capire le cose in un modo profondamente diverso da quello delle aziende dei media nazionali e globali con sede a New York»... Si parte con i blog, si arriva ai social come Instagram, TikTok, YouTube; e certo, rispetto ai vituperati media, il problema della commistione con i marchi o di una certa distanza dai contenuti è ampiamente superato ma, nel contesto, questo costituisce paradossalmente un vantaggio. Perché è il lifestyle l’ambito in cui gli influencer esercitano il loro potere di influenzare ed è lì che scoprono di poter sbarcare il lunario in un momento di difficoltà economica globale, di più: «Quando i blogger e i primi influencer cedettero la propria indipendenza per ottenere in cambio una vita ben pianificata contribuirono anche a creare una macchina industriale dei media digitali in rapida crescita e interessata a monetizzare una vita autentica, più che a incarnarla». Con l’aiuto di un mondo di mezzo, quello degli intermediari, agenzie nate appositamente per mettere in contatto aziende in cerca di pubblicità e influencer in cerca di successo.
Ecco qualche numero di questa crescita e di questa monetizzazione: nel 2016 i ricavi dell’influencer marketing erano stimati a 570 milioni di dollari solo su Instagram e un miliardo complessivamente e si prevedeva che, entro il 2019-2020, il settore arrivasse a otto miliardi di dollari, da raddoppiare entro tre anni. Ebbene, le ultime cifre sul mercato dell’influencer marketing del Digital Marketing Benchmark Report parlano di 21,1 miliardi di valore per il 2023, con una crescita del 28 per cento sul 2022 e del 52 per cento sul 2021. Per l’Italia, il valore del mercato si aggira intorno al miliardo. Quanto ai principali influencer, i cinquanta più seguiti e remunerati del pianeta vantano 2,6 miliardi di follower sui vari social e, sempre nel 2023, hanno ottenuto ricavi pari a 700 milioni di dollari (erano 570 milioni nel 2022). Come spiega Hund, le «tariffe» degli influencer sono assai variabili; se «qualcuno che ha 150mila follower può essere più prezioso per un particolare cliente di qualcuno che ne ha due milioni» (esistono perfino i «micro» e «nano» influencer, di nicchia), ci sono anche delle stime generali: una persona con 100mila-500mila follower può guadagnare dai 2000 ai 5000 dollari per un post su Instagram; chi ne ha da 500mila a un milione può guadagnare 4mila-10mila dollari; chi ha più di un milione di follower chiede almeno 4mila dollari a post ma, a volte, anche 15mila. Ammette un operatore del marketing: «Ad alcune celebrità abbiamo offerto fino a 30mila dollari per un post su Instagram»... Del resto, i dati dicono che il 92 per cento dei consumatori si fida più degli influencer che delle pubblicità tradizionali o dei consigli dei vip.
La consacrazione del settore è arrivata nel 2015, quando la Harvard Business School si occupò, come caso di studio, del blog di Chiara Ferragni The Blonde Salad: «Potendo vantare milioni di follower su Instagram, inserzionisti di alto profilo, collaborazioni con marchi come Gucci e Louis Vuitton e diverse copertine sulle più prestigiose riviste internazionali, Chiara Ferragni venne ampiamente riconosciuta come una delle principali influencer al mondo». Lo è stata sicuramente fino a pochi mesi fa e al noto «caso dei pandori»...
Però, però... Qualche incrinatura c’è. Per esempio, c’è chi finisce come una delle prime blogger di successo, Tavi Gevinson: «Non ho più creduto alla purezza delle mie stesse intenzioni da quando sono diventata anche l’addetta alle vendite di me stessa». L’autenticità venduta al pubblico ha il suo prezzo. E poi (molto più inquietante) è «ben avviata», secondo Hund, la trasformazione «da un’industria incentrata su ciò che si compra a una che si preoccupa di ciò che si pensa». Dallo shopping alla politica e all’ideologia, il passo è già stato compiuto. Ed ecco la domanda: «Possiamo, come cittadini, sopravvivere al costante martellamento di informazioni veicolate da specialisti autoproclamati a cui è stato concesso il potere di farlo da un ecosistema mediatico dominato dalle celebrità e guidato da criteri commerciali, che media anche le nostre personali connessioni sociali e l’espressione di sé – cioè da un’industria che è, letteralmente, fuori controllo?». Come ogni mercato dei sogni, anche quello degli influencer ha il suo lato oscuro. Succede, quando le persone iniziano a luccicare come la merce che vendono.