La Stampa, 28 aprile 2024
Benini e Rushdie
Salman Rushdie non ha ferite alla schiena, perché non ha mai dato le spalle al suo attentatore. Ha alzato una mano per difendersi, e sulla mano è stato affondato un’altra volta il coltello. Collo, petto, occhio, cadere a terra in mezzo a tutto quel sangue, pensare con sincero stupore: ecco, sto morendo. Nemmeno in quel momento c’è stato spazio per l’odio. In quel momento Rushdie ha pensato solo a chi ama. E alle chiavi nella tasca della giacca, alla giacca rovinata dal sangue, a: perché proprio adesso? C’erano stati i sogni premonitori, certo: lui che viene assalito da un gladiatore in un anfiteatro. E adesso Rushdie si trova proprio in un anfiteatro, lontano da casa, per parlare degli scrittori perseguitati. Troppa ironia, in una fine così. Non è stata la fine, e Rushdie può tornare a usare l’ironia: come i lettori più attenti avranno intuito, ha scritto, non sono morto.
Come i lettori più attenti avranno intuito, abbiamo invitato Salman Rushdie al Salone internazionale del libro di Torino molti mesi fa, in autunno, e per molti mesi io ho pensato: ma non verrà. Eravamo a Segrate, nella riunione editoriale con la sua casa editrice italiana, Mondadori, e io ho detto, rinfrancata dalla notizia che sarebbe uscito Knife in primavera: come sta adesso Salman Rushdie? Non gli piacerebbe venire al Salone? Gli faccio io da guardia del corpo.
Le amiche della Mondadori hanno alzato tutte le sopracciglia a disposizione ma per gentilezza e buona educazione non mi hanno riso in faccia. Però in quell’imbarazzo, rallegrato dalla notizia che Rushdie adesso stava scrivendo, abbiamo sentito tutti che una possibilità c’era. Sono seguite decine di altre riunioni Zoom, centinaia di email, punti sulla sicurezza, cauto ottimismo, notturno pessimismo, planimetrie, preghiere scritte al suo amico e agente, il mitologico Andrew Wylie (di cui Rushdie parla con grande affetto in questo libro e assicura: non è vero che è cattivo). Naturalmente non potevamo dire nemmeno una parola, e per mesi io ho subito senza fiatare le angherie di un’amica scrittrice che mi ripeteva più o meno ogni settimana: ma che cosa stai lì a fare se non porti Salman Rushdie a Torino? Infatti, rispondevo, che disastro.
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Salman Rushdie verrà a Torino venerdì 10 maggio per amore dei suoi lettori, per amore dell’Italia, e per l’amicizia e la stima che da molti anni lo legano a Roberto Saviano con il quale sarà in dialogo in un grande incontro pubblico. Verrà perché ha vinto: non è morto, anzi è miracolosamente vivo e in forze, continua a essere uno scrittore, a usare le parole per smascherare la realtà, continua a viaggiare per incontrare i suoi lettori. Continua a difendere la libertà di parola, di pensiero, di vita e di risata contro i regni del terrore repressivo.
«La prima lezione sulla libertà di parola che ho imparato è che deve essere data per scontata. Se si ha paura delle possibili conseguenze di ciò che si dice, non si è liberi». Rushdie ha raccontato la sua storia rifiutando di essere identificato con l’attentato, arrivato trentaquattro anni dopo la fatwa di Khomeini, allo stesso modo in cui ha sempre rifiutato di identificarsi con la fatwa. Ha continuato il suo cammino letterario interrotto il 12 agosto 2022 da un coltello che non ha mai visto – tanto che ha pensato per un attimo di venire preso a pugni da un pugile che gli stava sfasciando la mandibola.
Rushdie ha riguadagnato la libertà vivendo da uomo libero.
Non è tutto così semplice, ovviamente, ci sono conseguenze e ci sono dolori irreversibili, le persone che ama hanno sofferto enormemente e hanno avuto paura di non rivederlo più, la vita di tutti quanti è stata stravolta dalla violenza, Rushdie ha perso l’uso di un occhio, gli è stata cucita (da sveglio) e poi scucita una palpebra: l’incubo della sua vita è sempre stato la cecità, poiché l’altro occhio soffre di una malattia degenerativa, e adesso deve sperare che la situazione resti stabile.
Lui chiama tutto questo semplicemente: i guai che mi sono capitati. I guai che gli sono capitati non gli impediscono di pensare al prossimo libro, al prossimo viaggio, al lavoro di oggi. I guai che gli sono capitati non gli impediscono di ricominciare a vivere una vita piena d’amore.
Essere un uomo libero significa anche questo: non essere schiavi dell’odio. Il suo grande amico Martin Amis, dopo averlo rivisto, gli ha scritto forse la cosa più importante di tutte: ti sei rivelato all’altezza della situazione. E come in quei versi di Raymond Carver che riassumono il senso di una vita: sentirmi amato sulla terra, Salman Rushdie ha risposto all’odio continuando a cercare questo senso in ogni cosa che fa: «Anch’io mi sono sentito amato sulla terra. Anche odiato, certo, ma amato molto di più». E Torino, la città della parola, lo aspetta per dirgli grazie.