La Stampa, 27 aprile 2024
A cosa servono gli storici
A chi si occupa di passato piace dirsi erede della classicità: Erodoto e Tucidide vengono spesso presentati come i capostipiti della tradizione dello historèin, del “ricercare”, pratica a cui chi studia Storia deve votarsi.
A ben vedere però, almeno nel caso europeo, questa paternità appare poco lineare.
Gli storici per come li conosciamo sembrano più il frutto dell’evoluzione di una figura che frequenta le corti medievali: i cronachisti, registratori fedeli delle glorie dei loro sovrani, e magari occultatori delle loro miserie, sono i padri più o meno nobili dell’odierna storiografia.
Eginardo con Carlo Magno, Ottone di Frisinga con Federico Barbarossa o Tursun Beg con Mehmed II, gente chiamata a supportare e giustificare il potere attraverso la narrazione, e quindi il controllo, del passato. Agenti della costruzione del “modo di pensare” del proprio gruppo di appartenenza e fornitori di esempi di passato utili al racconto del presente.
Quando l’idea di nazione si diffonde nell’Occidente agli storici viene dato l’ingrato compito di fornire le basi culturali di questa impalcatura. La Storia diventa scienza proprio quando gli Stati diventano nazioni. Eric Hobsbawm, storico anch’egli, con una battuta ricorda che «gli storici sono per il nazionalismo ciò che i coltivatori di papaveri sono per gli eroinomani: forniamo la materia prima essenziale per il mercato».
La democratizzazione degli studi ha portato a una benefica indipendenza del sapere dalle leve del potere e, accanto agli storici cantori, sono apparsi sgomitando gli storici critici. La storiografia si è trasformata da verità a interpretazione, e le interpretazioni sono diventate dibattito. Un nuovo corso in cui gli storici mettono in discussione la visione dominante e diventano attori della costruzione del mondo, e non solo narratori.
Ma è sempre lo storico inglese a tarpare le ali, con sarcasmo, al sogno dell’edificazione del futuro sugli esempi del passato. Dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, scontro di ideologie a cui anche la disciplina di Clio aveva fornito carburante, Hobsbawm nota che gli storici «hanno perso l’accesso alle stanze del potere a favore degli economisti che, miracoli del capitalismo, sembrano raccontare meglio di chi studia il passato come deve essere il futuro».
Dopo aver contribuito alla costruzione del sistema, insomma, ne vengono malamente espulsi.
La storia, dicono i politologi alla Fukuyama, è finita, seppellita dalle macerie del muro di Berlino.
Poi la crescita si ferma, il mondo monopolare va in pezzi, gli economisti balbettano e qualcuno ricomincia a guardare al passato in cerca di risposte. Ma il meccanismo sembra essersi rotto.
«Sì, ok, ma è gente morta ottant’anni fa, che cosa ha a che fare questo con me?», ci si può sentire chiedere oggi, facendo formazione a ragazze e ragazzi in giro per l’Italia, parlando ad esempio di Resistenza. A me è capitato. Domanda ruvida, e amara.
Perché girare lo sguardo all’indietro quando la necessità, soprattutto dei giovani, è trovare un modo per definirsi e il sistema più semplice per farlo è attraverso quel che si fa?
Le ragazze e i ragazzi che si affacciano alla realtà vivono, come tutti, in un’età schiacciata sul presente della notifica smartphone, in cui una fetta di futuro, questo luogo di sogno esplorabile proprio attraverso l’esempio del passato, è stata già ipotecata da cataclismi e crisi epocali che i giovani non hanno contribuito a provocare ma di cui per certo subiranno le conseguenze.
Dopo il racconto di una società come ente produttivo teso al domani è difficile reimpostare un discorso lento, frazionato sui fatti: oggi lo studio del tempo sembra una perdita di tempo.
Alla domanda «che mi importa del passato?», io solitamente rispondo che il passato è il luogo in cui si trovano le risposte al nostro modo di guardare la realtà. È nel passato che si forma la mappa genetica del nostro vivere: se ci piacciono i capelli lunghi o corti, se dal macellaio troviamo la carne di coniglio ma non quella di gatto, se pensiamo sia normale passare otto ore al giorno lavorando, se accettiamo di vivere in pace o di morire in guerra. È tutto scritto nella stratificazione delle scelte di generazioni che ci hanno preceduto, in un’opera di sedimentazione lenta e inesorabile.
Oggi la politica cerca di ridare senso al tutto con toppe di storia: miti fondativi, padri nobili, elmi con le corna sbandierati come simboliche radici che ci uniscono. Si chiede supplenza all’esempio passato, non riuscendo efficacemente a produrne uno presente. Si continua a vedere la storia come un enorme supermercato in cui fare memoria è come fare compere: si prende quel che serve, si lascia sullo scaffale il resto. E potrebbe anche essere un’immagine efficace, se solo ci si mettesse d’accordo sulla lista della spesa.
La politica sta saccheggiando il passato in cerca di risposte, maneggiando i fatti come clave retoriche. Ma è necessario riprendere in mano il filo di senso che ci collega a quei fatti per poterli utilizzare.
Chiediamo risposte a domande che in realtà non vogliamo farci: le ultime polemiche sul 25 aprile ci raccontano un Paese in cui si vorrebbe semplificare la Liberazione a tappa di un cammino senza scossoni. E invece certe date impongono una riflessione proprio perché sono spartiacque: il 25 aprile interroga un’intera società chiedendole se i valori con cui essa fu fondata sono gli stessi di oggi. Una domanda potente, divisiva anche. Ma necessaria. Se non si è disposti ad accettare questo confronto allora è meglio smettere del tutto di interrogarlo, il passato.
La Storia serve a comprendere, rafforzare e, se necessario, cambiare i valori sociali. Perché sì, la storia si fa anche abbattendole, le statue. Se il 25 aprile o qualsiasi altra data mettono in difficoltà il discorso pubblico non è colpa della data in sé, ma dell’incapacità di affrontare il tema dei valori fondanti attorno a cui il nostro racconto pubblico si basa.
La storia siamo noi, si cantava, ed è vero nel senso più profondo: avere paura del nostro passato significa avere paura di noi stessi. Una paura che non possiamo permetterci, se vogliamo guardare al futuro. —