La Stampa, 27 aprile 2024
Intervista a Lilli Gruber
Un libro sul mercato del porno e sull’influenza che ha nelle nostre vite. Idee molto chiare su quanto sta accadendo in Italia: tentativi di controllare l’informazione che sanno di «Repubblica delle banane». Un giudizio molto netto su Giorgia Meloni: «Una donna che per prima arriva a Palazzo Chigi e chiede di essere declinata al maschile, è un modello sì, ma negativo». Lilli Gruber ha appena pubblicato per Rizzoli “Non farti fottere”.
Come le è venuta l’idea?
«Mi è venuta circa due anni fa, nell’ambito del mio lavoro sulle donne e sulla loro immagine. Ho potuto osservare come la pornografia gratuita online sia la nuova frontiera del capitalismo maturo: lo sfruttamento intensivo del corpo, soprattutto femminile, in proporzioni mai viste prima».
Non ha pensato: è l’ultima cosa che ci si aspetta da me? O l’ha fatto proprio per questo?
«No, non ci ho pensato. E in realtà, credo che l’ultima cosa che ci si aspetti da me sia un libro di cucina. Un giorno farò anche quello».
Perché era così importante capire i meccanismi e il giro di soldi dietro al porno?
«Follow the money è sempre un buon modo per comprendere i fenomeni nella loro realtà, al di là della retorica. E la realtà è che il porno gratuito online incassa guadagni miliardari del tutto al riparo dagli occhi del pubblico, dall’attenzione della politica e in molti casi anche della legge. Qualcuno sa chi sono gli Zuckerberg e i Bezos del porno? Non è strano, in un Paese che è l’ottavo miglior cliente di Pornhub al mondo? Nel libro, ve li presento».
Rocco Siffredi non si è fatto intervistare.
«Riteneva, a torto, che io fossi “contro il porno”. Spero che legga il libro, sono sicura che alcune cose non le sapeva nemmeno lui».
Lo stupro di gruppo di Palermo, le bambine di Caivano, di 10 e 12 anni. È la proliferazione del porno a generare questa incapacità di vedere l’altra come una persona o c’è qualcosa di più profondo?
«C’è sicuramente qualcosa di più profondo, il fenomeno complesso della “reificazione dell’altro”, come dice Alessandra Graziottin. Ma le analogie tra alcuni episodi di violenza e le sceneggiature classiche dei video porno online non possono essere sottovalutate. E dobbiamo renderci conto che per le generazioni dei nativi digitali il confine tra reale e virtuale è sempre più permeabile. Questo crea tentazioni di emulazione».
È arrivato il momento di far arrivare il sesso ai ragazzi attraverso tutto un altro racconto?
«Sì: è ora di istituire l’educazione sessuale nelle scuole, a partire dalle elementari, come parte dei programmi ministeriali. Dobbiamo dare loro informazioni chiare, con delicatezza e precisione, in modo adatto alle diverse età. L’alternativa – tacere, voltarsi dall’altra parte, fingere che il porno non esista o che loro non lo guardino – non produce adolescenti più puri di cuore, ma adolescenti più fragili e manipolabili».
Cosa lo impedisce?
«I governi in Italia, non sono mai stati particolarmente attenti a questo aspetto. Battersi per una corretta educazione sessuale non fa conquistare consensi: anzi. Siamo il Paese della doppia morale cattolica: certe cose si fanno ma non si dicono. Ora che al governo c’è una destra che sbandiera l’ideologia del “Dio Patria e Famiglia” nessuno si stupisce che l’unica timida iniziativa, l’istituzione di una commissione per studiare progetti di educazione alle relazioni nelle scuole, sia naufragata in pochi giorni tra le polemiche. E tutti di nuovo zitti fino alla prossima emergenza».
C’è stata negli ultimi mesi un’onda di proteste nelle università contro le molestie nei confronti delle ragazze. Crede che in Italia episodi del genere siano ancora sottovalutati?
«Credo che in Italia come altrove la consapevolezza della gravità di certi atteggiamenti stia crescendo. Ma il problema è un altro: il 50% delle donne nel nostro Paese non lavora. Se lavorano, hanno stipendi – e dunque pensioni – inferiori a quelli degli uomini. Una su tre non ha un conto in banca a suo nome. In una situazione di debolezza molestatori e uomini abusanti hanno vita fin troppo facile».
Da noi un’esperienza come il Metoo potrebbe mai attecchire?
«Le prime battaglie da fare sono quelle per i diritti: per la parità salariale, contro le discriminazioni sul lavoro, per il congedo di paternità obbligatorio, per migliori servizi alla famiglia che allevino il carico di cura che grava sulle spalle delle donne. Altrimenti, gli uomini di potere avranno sempre più potere e le donne sempre meno».
Vede un’opposizione pronta a fare una battaglia del genere?
«Elly Schlein sa che rischiamo di tornare indietro e che c’è ancora molto da fare. Ma le opposizioni possono essere incisive e determinanti solo se unite. Vale per questo tema come per tutto. Solo uniti si può costruire un’alternativa e rimotivare il proprio elettorato riportandolo al voto».
La Lega prova a motivare il suo con Vannacci.
«Mi pare che molti nella Lega non l’abbiano presa bene. Ci si chiede quanto possa andare avanti Salvini come uomo solo al comando. Solo l’esito delle Europee dirà se ha fatto bene o ha fatto male. A quel punto, tireranno le somme».
Lei scrive anche di Giulia Cecchettin, della piazza del 25 novembre: c’è uno scollamento tra quello che sentono le ragazze e quello che fanno le istituzioni?
«Non è così strano: spesso, nella storia recente, i giovani sono andati avanti e le istituzioni sono arrivate dopo, pensiamo al ’68. Quella del 25 novembre è stata una piazza molto bella e molto giusta. Ma le istituzioni hanno il dovere di tutelare quelle ragazze, perché la loro dignità di donne non sia messa in pericolo dallo sdoganamento di una violenza verbale e fisica sempre più pervasiva. E dallo strapotere di un sistema produttivo ed economico, quello del porno online, per cui un corpo femminile è solo un oggetto da usare, abusare, gettare via».
Scrive “Oggi dobbiamo tornare a combattere contro un sistema patriarcale che rialza la testa, contro un machismo di ritorno che invade ogni settore della società”. Vede una regressione?
«Basta dire che si sta di fatto rimettendo in discussione il diritto all’aborto. Non avrei mai immaginato di dover tornare a difenderlo a neanche mezzo secolo dall’approvazione di una legge di civiltà come la 194».
Cosa pensa dei pro-vita nei consultori?
«Con le percentuali di medici obiettori di coscienza che abbiamo in Italia – lo sono sei ginecologi su dieci, spesso le donne devono spostarsi in un’altra regione per poter abortire – l’interruzione di gravidanza è di fatto un diritto tutt’altro che garantito. Invece che sanare questa situazione scandalosa, ci si preoccupa di far loro incontrare dei presunti buoni samaritani per far loro il predicozzo e mandarle a casa, o più probabilmente in una clinica privata. Ma prendere in giro le donne non è una buona idea e se ne accorgerà anche Giorgia Meloni».
Lei scrive di quando fu attaccata dalla premier per aver parlato di uno stile di governo patriarcale.
«Alla nostra premier la stampa libera e critica proprio non piace. Continuiamo a sperare in un malanno stagionale anche se ormai va avanti da parecchi mesi».
È un episodio che ricorda il caso Scurati.
«Quella di Scurati era una breve lezione di storia, su un regime che ha tolto al Paese la libertà e il diritto di parola, per poi costarci molte vite umane. Grazie all’intervento improvvido dei vertici Rai, probabilmente il suo discorso ha raggiunto molte più persone che se lo avesse effettivamente letto durante la trasmissione. Eterogenesi dei fini: magari il tentativo di censurare l’antifascismo ha prodotto qualche anticorpo sociale in più contro le tentazioni neofasciste».
Questo tentativo di appropriazione di una fetta ampiamente maggioritaria dell’informazione, casi come quello dell’Agi, nel resto d’Europa sarebbero possibili?
«A monte c’è il problema della lottizzazione politica della Rai, che non è nato ieri ed è trasversale a governi di ogni colore. Nel resto d’Europa non succede. Al di là della maggiore o minore sfacciataggine di uno o dell’altro esecutivo nell’appropriarsi delle leve dell’informazione, bisogna cambiare in profondità un sistema che permette loro di farlo. Il caso Agi rappresenta un vergognoso conflitto d’interessi: una controllata dello Stato, l’Eni, pensa di vendere la sua storica agenzia di stampa al re delle cliniche private nonché editore di destra nonché senatore della Lega, Angelucci. Un po’ Repubblica delle banane».
La preoccupa la tensione fra polizia e piazze di studenti?
«La violenza, quando c’è, va condannata sempre. Ma mi preoccupa anche aver visto, in alcuni episodi, dei ragazzi manganellati solo perché manifestavano pacificamente, come nel caso di Pisa. Spero che anche in questo caso il tentativo di metterli a tacere produca l’effetto opposto: che imparino a gridare più forte, a farsi sentire di più. Sono i loro diritti a essere in pericolo, è il loro futuro».
Per diventare premier la leader FdI si è fatta strada in un mondo di quasi solo uomini: può essere un esempio per le donne?
«Meloni ha fatto una carriera importante, ha dimostrato abilità e perseveranza, ha saputo trionfare su alcuni uomini e anche adesso continua a tenere a bada i suoi riottosi alleati maschi. Ma se arrivi al potere e poi quel potere lo usi per minare i diritti delle altre; se il tuo essere madre lo declini solo in retorica della maternità mentre aumenti l’Iva sui pannolini; se sei insomma femmina ma non femminista, allora avercela fatta è utile per te, ma inutile per le altre e persino dannoso».
Il libro è dedicato ai suoi genitori, Herlinde e Alfred. Dice: mi hanno insegnato a essere libera. Come si fa?
«Mio padre mi ha sempre instillato il senso della responsabilità personale. Mia madre, invece, mi esortava a essere indipendente, economicamente e nel mio modo di pensare. Entrambi hanno insistito sul valore dello studio e della cultura. Oggi, anche grazie a loro, so che la libertà è avere gli strumenti per non farsi manipolare, e con questo libro cerco di offrirne qualcuno». —