la Repubblica, 27 aprile 2024
Intervista a Riccardo Scamarcio
Riccardo Scamarcio, “Sei fratelli” di Simone Godano (in sala il primo maggio, con 01 ndr) mette in scena una famiglia realistica con i suoi rapporti disfunzionali.
«È un film che cerca di scandagliare le dinamiche familiari, mettendo in scena una famiglia super allargata.
Simone rappresenta personaggi che si parlano liberamente tra di loro, ma che hanno una parabola precisa. Ha la capacità di rendere naturale una quotidianità, dentro un’estrema precisione drammaturgica».
Lei viene da una famiglia classica.
«Sì. Mio padre e mia madre sono stati insieme finché lui ci ha lasciati. Una famiglia ca nonica, ma con turbolenze. Con i miei due fratelli siamo uniti, ma abbiamo subito il contraccolpo della perdita di papà, che ci ha fatti scricchiolare. Poi per fortuna e per necessità ci sentiamo tutti i giorni».
Suo padre è stato un riferimento importante, per lei.
«Sì, lui e mamma. È stato un padre esemplare, anche con difetti macroscopici. Era ossessionato dal concetto di onestà, l’essere un uomo di parola. Oggi suona come un concetto arcaico, ma questa cosa io l’ho seguita, e mi sono trovato bene».
Cosa la fa ridere di più?
«Le telefonate con gli amici d’infanzia di Andria, in dialetto, a ridere. Ci siamo sostenuti negli anni».
Cosa resta del ragazzo di “Tre metri sopra il cielo, vent’anni fa”?
«È vivo e vegeto, l’ho difeso e protetto da tutto, in questi anni. L’essenza di quel ragazzo è viva, dentro il corpo di un uomo fatto e maturo».
Quel film parla ancora agli adolescenti di oggi. Perché?
«In questo periodo storico di film romantici non se ne fanno tanti. E invece c’è una necessità di romanticismo. I film che ci piacciono e restano lo sono. E per romantici intendo quei film che sono indulgenti con eroi e antieroi che portano in scena, che l’autore ha la capacità di farci perdonare e salvare. Non credo che il cinema abbia responsabilità pedagogiche, deve anzi essere libero da qualsiasi obiettivo precostituito, ma se c’è una cosa che può fare al suo meglio è scaldare i nostri cuori».
Oltre ad attore è anche produttore. Come nell’ Ombra del giorno di Giuseppe Piccioni, film con lei e Benedetta Porcaroli, con una seconda vita sulle piattaforme.
«Sono subentrato al vecchio produttore in difficoltà. Il film è ambientato nel ‘39 e ‘40, qualche mese prima che scoppi il secondoconflitto mondiale, ci sono molte analogie con il presente: lo sminuire il pericolo, i proclami sventolati con grande leggerezza e che poi hanno prodotto milioni di morti. Alcunedinamiche le viviamo oggi: censure, indifferenza di fronte alla violenza perpetrata tutti i giorni in vari scenari, che ci rende complici e potrebbe ritorcersi contro di noi».
Ha sempre preso posizione su temi politici e sociali.
«Pagandone un prezzo, qualche volta salato. Chi esprime il proprio pensiero in maniera libera è poi oggetto di critiche, anche pesanti e che fanno soffrire, soprattutto quando le tue intenzioni vogliono, come nel mio caso, accendere l’attenzione. Magari dico anche cose sbagliate, però punto a far riflettere, accendere un faro sull’umanità, che mi sembra sia la cosa più a rischio in questo momento».
Il cinema le ha cambiato la vita.
«Mi ha tolto dalle strade di Andria dove bighellonavo da adolescente.
Potevo evadere in un altro mondo.
Devo tanto al cinema, da spettatore, attore, uomo. Ho avuto la fortuna di incontrare persone incredibili nella mia carriera. Il cinematografo è diverso dal mondo del teatro e dell’informazione. È fatto da corsari, persone che combattono in modo anarcoide, intellettuale, ma anche molto pragmatico, artigianale. Che fanno dei prototipi».
Ha detto di essere competitivo.
La sua grande sconfitta?
«Ho vissuto momenti di sconforto e di sconfitta vera, ad esempio rapporti difficili con registi. Ma mi riconosco di essere stato bravo perché ho sempre preso la strada più difficile.
Quando ho preso schiaffi, e ne ho presi belli forti, era perchè magari dietro c’era un’ambizione troppo alta, che non mi potevo permettere in quel momento. Ma mai perché ho accettato di fare la pubblicità, fare soldi con i social. La vera sconfitta è rinunciare agli ideali».
È Modigliani per Johnny Depp.
«Johnny è un uomo libero, un artista eclettico. È sensibile, inafferrabile.
Ma quando c’è, è bello girare con lui».
Un ricordo dal set?
«La scena in cui esco da un incontro importante con un compratore d’arte, Al Pacino. Avevano preparato un’intera strada a Budapest, ma la scena doveva essere notturna e Depp non voleva girare. Gli suggerisco di girarcene un’altra, gli faccio sentire le musiche dello Sceicco bianco di Rota e lui impazzisce. Abbiamo improvvisato una cosa che vedrete nel film. Questo, è il primo film da protagonista assoluto che faccio in inglese e con queste grandi star».
Al Pacino?
«La quintessenza dell’attore. Uno dei pilastri del cinema indipendente, con Coppola, De Palma. Anche se i film hanno avuto distribuzioni planetarie e vengono attribuiti all’industria di Hollywood, la realtà è che dietro di essi ci sono individui, quei famosi corsari di cui parlavamo all’inizio».