la Repubblica, 27 aprile 2024
Intervista a Gabriele Finaldi
Numero 32. È la sala che adora di più.Partiamo da qui, «dai pittori italiani del Seicento. Con loro ho iniziato a studiare seriamente la storia dell’arte a 17 anni», ricorda il direttore della National Gallery, Gabriele Finaldi, mentre camminiamo attraverso la passione di centinaia dei 3 milioni di visitatori annuali: «Guardi: Caravaggio, Orazio Gentileschi, Francesco Solimena, Guido Reni. È un’arte sentita e potente, di una grande sapienza tecnica acquisita dal Rinascimento, con una carica umana fortissima. Tutto questo in una sala simbolo dello Stato che si impegna, in pieno periodo vittoriano, a condividere l’arte con i cittadini».Difatti, la National Gallery è ancora oggi gratuita. Qualche giorno fa ha presentato “l’ultimo dipinto” di Caravaggio, Il martirio di Sant’Orsola,in prestito grazie a Intesa Sanpaolo che in cambio, alle Gallerie d’Italia di Napoli, ha ricevuto fino al 14 luglio due Velázquez, Immacolata concezione eSan Giovanni Evangelista a Patmos. Ora però, il 10 maggio, la National Gallery si appresta a celebrare i suoi 200 anni di vita e leggenda, con a capo il 57enne italo-britannico Finaldi: nato nella londinese Barnet da padre napoletano e madre polacca-inglese, studi al Dulwich College e al Courtauld Institute of Art, dottorato sul pittore spagnolo barocco Jusepe de Ribera e poi una lunga carriera da curatore.Prima della missione più importante della sua vita. Finaldi è appena entrato nel decimo anno di conduzione di questo colosso dell’arte mondiale nell’edificio neoclassico di Trafalgar Square a Londra, che si espanderà con la nuova, “luminosa e accogliente” estensione Salisbury Wing, nel 2025.E che oggi ospita oltre 2600 opere, moltiplicatesi dai 38 dipinti che il banchiere John Julius Angerstein acquistò dallo Stato britannico nel 1824: Renoir, Botticelli, Velázquez, Rubens, Holbein, Cézanne, Monet, Seurat, Vermeer, Ingres, Rembrandt, Piero della Francesca, Mantegna,eccetera.Finaldi, il suo preferito qual è?«Questo. La Cena in Emmaus di Caravaggio. Guardi che potenza visuale ed estetica, il realismo drammatico che cattura subito il visitatore. È di oltre quattro secoli fa. Eppure Caravaggio è così vicino alla nostra sensibilità. Sembra quasi cinema moderno, con questo virtuosismo e i fasci di luce: il Gesù risorto, il verismo della natura morta…».Però per un po’ non ci sarà, giusto?«Esatto. Abbiamo lanciato un tour itinerante di alcune nostre opere. La Cena in Emmaus andrà a Belfast, mentre questo stupendo Autoritratto come Santa Caterina di Artemisia Gentileschi, per noi importantissimo perché donna in un Seicento dominato dai maschi, sarà presto esposto a Birmingham. Perché noi,fin dal 1824, siamo un’istituzione aperta a tutti. L’obiettivo è di raggiungere almeno un milione di inglesi che non verrebbero mai alla National».Ma ciò non nuoce alla centralità dell’istituzione?«No, da due secoli siamo sempre in evoluzione per coinvolgere cittadini e appassionati. Inoltre, ci sono molti musei più piccoli in crisi nel Regno Unito dopo il Covid. Abbiamo l’obbligo morale di aiutarli».Il tour itinerante è dovuto anche al calo di visitatori stranieri?«Sì. Prima costituivano il 65% del totale, ora siamo sotto al 40%. Dopo il Covid abbiamo dovuto puntate su un pubblico più “stabile”. I miei colleghi di Roma, Parigi e Firenze mi dicono che invece da loro il flusso dei turisti stranieri è tornato ai livelli pre-pandemia. Da noi no».C’entra anche la Brexit?«Sì, perché ora serve il passaporto.Anche le scolaresche sono in calo, oltre al turista europeo medio.Inoltre, l’alto costo della vita a Londra non aiuta. Ci ristabiliremo, ma siamo in un momento di transizione».La Brexit ha impattato anche in termini di acquisizione di opere e prestiti?«Sì, è diventato un po più complicato a causa della burocrazia e più costoso, per non parlare dell’inflazione e degli aiuti di Stato che stanno calando. Ma come grande museo statale riusciamo a farcela, anche grazie al marketing e alla filantropia. È questa la vera sfida nei prossimi dieci anni: rendere i musei economicamente sostenibili, oltre che a emissioni zero. E poi ce n’è un’altra».Quale?«Nelle scuole si insegna sempre meno storia dell’arte. Il rischio per i musei è di diventare sempre più distanti dalle nuove generazioni. Per questo bisogna essere coinvolgenti».Cosa ne pensa delle crescenti richieste di restituzione di opere da parte dei musei britannici, in primis i Marmi del Partenone del British?«Non commento nello specifico, ma in generale bisogna valutare caso per caso. Tuttavia, Londra è una grande città internazionale, le opere qui non sono meno legate ad altri luoghi… inoltre, il colonialismo è una realtà storica. Non si può disfare tutta la Storia. Ma certo si possono correggere gli errori, quando è possibile».E che mi dice degli ambientalisti radicali per il clima come Just Stop Oil, che nei mesi scorsi hanno preso di mira anche opere della National?«Sia come cittadino che come direttore mi sento molto offeso nel vedere simili capolavori cosi attaccati e brutalizzati, con grave pericolo di danno permanente».Di che tipo?«Guardi questa Venere Rokeby di Velázquez. Lo hanno danneggiato, nonostante il vetro. Abbiamo dovuto portarlo in restauro e correggere i danni. Puoi mettere tutti i controlli che vuoi, ma l’opera d’arte deve essere visibile, accessibile e dunque vulnerabile. Altrimenti il visitatore non la apprezza».E ora cosa farete per proteggere i vostri quadri?«Abbiamo dovuto aggiungere vetri di protezione anche a quelli che non lo avevano, come questo qui di Tiziano. Ma senza il senso fisico e la massa del pigmento sulla tela, purtroppo l’opera diventa più distante al visitatore. Approvo l’inasprimento delle leggi in Italia contro simili azioni irragionevoli: dovremmo applicarle anche qui».Di cosa va più fiero in quasi dieci anni da direttore?«Siamo riusciti a essere vicini al pubblico anche durante il Covid, abbiamo ampliato l’attività digitale, incrementato il numero di artisti contemporanei, acquisito opere di cui sono orgoglioso come Juan de Zurbarán, Cavallino, Bloemaert contemporaneo di Rubens, iSette sacramenti di Poussin e Ferdinand Hodler».E c’è dell’orgoglio italiano?«Certamente. Dico sempre che la National Gallery è un po’ un’ambasciata alternativa dell’Italia, visto la collezione che ha».È fiero anche del famigerato restauro della “Natività” di Piero della Francesca, qualche anno fa duramente criticato?«Io sono molto contento del risultato finale. LaNatività era in uno stato molto compromesso. Allora abbiamo fatto un accuratissimo restauro, durato 18 mesi. In generale, il restauro ha diverse scuole e filosofie in Europa, per esempio quella francese è meno interventista. Noi invece tendiamo a ricostruire elementi danneggiati o addirittura andati perduti nel tempo. Così laNativitàne ha guadagnato e quando l’anno scorso l’abbiamo portata a Sansepolcro, dove è nato e morto l’artista, l’hanno apprezzata tutti».