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 2024  aprile 28 Domenica calendario

Quattro milioni di italiani al Pronto Soccorso in un anno senza motivo


Lo studio
L’anno scorso su oltre 18 milioni di accessi alle strutture di emergenza urgenza, 12 milioni di pazienti (il 68%) hanno ricevuto, dall’infermiere addetto al triage, un codice verde (urgenza minore) o bianco (non urgente). Tra questi, secondo un recente studio di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, 4 milioni di assistiti avrebbero potuto evitare di rivolgersi alle strutture di emergenza urgenza per i loro disturbi, curabili dal proprio dottore, dal medico di continuità assistenziale (ex guardia medica) o presso l’ambulatorio della Asl.
«Il Pronto Soccorso è il luogo dove si trattano le emergenze e si fa di tutto per salvare la vita a chi rischia di perderla, ma negli ultimi anni è diventato sempre più il posto dove si cercano risposte ai propri bisogni di salute che non si trovano altrove – osserva Andrea Fabbri, dell’ufficio di presidenza della Società italiana della medicina di emergenza urgenza (Simeu) e direttore dell’U.O. Pronto Soccorso, medicina d’urgenza e 118 dell’ospedale di Forlì —. Per esempio, i pazienti a bassa criticità e a bassa complessità di percorso potrebbero essere visitati non nei servizi di emergenza e urgenza ma in strutture prossime al Pronto Soccorso, come succede in tutto il mondo e si sta cercando di fare in Emilia Romagna con i Cau (Centri di assistenza e urgenza), dove si curano le persone con problemi di salute urgenti ma non gravi» (si veda l’articolo a destra).
Codici «minori»
Il potenziamento della medicina territoriale in atto dovrebbe anche garantire adeguata assistenza, fuori dall’ospedale, a chi ha problemi urgenti cosiddetti «minori». Ma il sovraffollamento nell’area dell’emergenza urgenza va attribuito ad altri motivi, come spiega il dottor Fabbri: «I mali del Pronto Soccorso non dipendono, principalmente, dai codici bianchi e verdi all’ingresso, tra i quali, peraltro, possono nascondersi problemi anche gravi – per fortuna pochi – che richiedono il ricovero; ma sono dovuti soprattutto alla carenza di personale e di posti letto nei reparti, che non possono accogliere i pazienti da ricoverare dopo essere stati stabilizzati al Pronto Soccorso».
«Da anni denunciamo il cosiddetto boarding, cioè la permanenza in Pronto Soccorso, in molti casi in barella, di pazienti già critici e spesso anziani, in attesa di un posto letto per il ricovero – interviene il presidente Simeu, Fabio De Iaco, direttore del PS dell’ospedale Maria Vittoria di Torino —. Trovare il posto letto non è compito del Pronto Soccorso, che non è un’organizzazione autosufficiente, ma dell’intero ospedale».
«Mai più sulle barelle»
Eppure, la riforma del Pronto Soccorso avviata nel 2019, in gran parte disattesa, prometteva: «Mai più pazienti lasciati giorni sulle barelle». E il nuovo approccio di sistema prevedeva che la gestione del sovraffollamento non sia solo un onere del PS ma che debba farsene carico l’intero ospedale, con tutti i reparti chiamati a evitarne l’intasamento. Con l’approvazione in Conferenza Stato-Regioni di tre documenti – Linee di indirizzo nazionali sul triage intraospedaliero, sull’Osservazione breve intensiva (Obi) e sulla gestione del sovraffollamento – le Regioni si erano impegnate a recepire l’Accordo entro febbraio 2020 e a renderlo operativo entro 18 mesi dalla data di approvazione. Poi è arrivata la pandemia e, in molti casi, si è interrotto il passaggio al nuovo modello organizzativo che si stava svolgendo gradualmente; basti pensare che in alcune Regioni i Pronto Soccorso ancora oggi non hanno adottato i nuovi codici di priorità.
«Quei documenti sottoscritti da Stato e Regioni sono ancora validi e indicano soluzioni tuttora utili, che andrebbero applicate» sottolinea il dottor Fabbri. Tra le misure raccomandate: l’adozione in ogni azienda sanitaria e ospedaliera di un piano per la gestione del sovraffollamento, requisito per l’accreditamento regionale del Pronto Soccorso dell’ospedale; il servizio di Bed management per facilitare i ricoveri e le dimissioni; il monitoraggio dei tempi di esecuzione e refertazione di esami di laboratorio, radiologici, consulenze al fine di ridurre i tempi di permanenza in Pronto Soccorso, un’«adeguata dotazione organica di personale nella rete dell’emergenza urgenza»; mettere a disposizione del Pronto Soccorso un numero di posti letto in area medica e chirurgica, in condizioni di iperafflusso, come succede, per esempio, nella stagione invernale. In generale, però, i piani per la gestione del sovraffollamento in Pronto Soccorso non prevedono un aumento di posti letto ma soluzioni come la riconversione temporanea di una quota di “letti”, di solito dell’area chirurgica, a favore di quella medica.
Medici e infermieri
Quanto alla carenza di personale nei Pronto Soccorso, secondo le stime di Simeu e della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi), mancano rispettivamente almeno 4.500 medici e 10mila infermieri. E, per coprire i turni, si fa ricorso anche a medici non specializzati in medicina dell’emergenza, a cooperative di servizio o professionisti «a gettone».
Avverte il presidente Simeu: «Si sta liberalizzando il rapporto col Servizio sanitario nazionale con differenti tipologie contrattuali e di orario (a volte irrisori, per esempio 6-12 ore a settimana), producendo così una continua frammentazione delle risorse professionali che lavorano in PS e riducendo la capacità di governo di queste strutture».