Corriere della Sera, 27 aprile 2024
Ora serve parlare di Europa
Mancano poche settimane al voto di giugno: elezioni che potrebbero rivelarsi fondamentali per i nuovi equilibri dell’Unione europea e, in definitiva, per le nostre vite e le nostre libertà. E tuttavia, con qualche virtuosa eccezione, l’attenzione nazionale è apparsa a lungo concentrata non tanto su Bruxelles o Kiev, quanto su Triggiano, Grumo Appula e Tremestieri Etneo; non su una riforma della governance continentale o sulla difesa della nostra prima trincea contro l’imperialismo russo, ma sui tormenti contabili di Visibilia e sul cattivo uso delle intercettazioni nel processo Consip. Nessuno se ne adonti, per carità. I paesini sopra citati si sono rivelati importanti spie di disagio democratico a causa della diffusa corruzione elettorale e le menzionate vicende processuali hanno di certo avuto e avranno il loro rilievo nella dinamica politico-giudiziaria. Il peso di questi casi nel dibattito pubblico comunica, però, anche uno straordinario senso di straniamento, quasi una distonia del sentire collettivo rispetto alle realtà che premono sui nostri confini e sui nostri destini. Intendiamoci: c’è, eccome, un’Italia che guarda all’Europa, anche se spesso a causa delle angustie nostrane. Secondo la «Fondazione Nordest» e l’associazione «Talented Italians in the UK», in un decennio più di un milione dei nostri ragazzi fra i 20 e i 34 anni (in gran parte i più qualificati) ha deciso di cercare fortuna in un altro Paese del continente, rappresentando, questo sì, il vero problema migratorio con cui dovremmo confrontarci.
E c’è un’Italia che parla all’Europa e dall’Europa è consultata per il suo prestigio e la sua attendibilità. A metà aprile il coraggioso discorso di Mario Draghi a La Hulpe, in Belgio, anticipando il rapporto sulla competitività che Ursula von der Leyen gli aveva chiesto di stilare, ha dato una scossa elettrica all’Unione sulla necessità di una vera coesione politica e, come ha ricordato Angelo Panebianco, sui guasti derivanti dalla frammentazione nel settore della difesa che ci impediscono sviluppo ed economie di scala. Dopo di lui Enrico Letta, incaricato di un dossier sullo stato del mercato unico europeo, ha suggerito di superare divisioni ancora profonde, forzando le tappe con la creazione entro il 2026 di un «safe asset» unificato che centralizzi tutte le emissioni di obbligazioni convogliando i risparmi nel finanziamento dell’economia reale: è la via del debito comune europeo, unica prospettiva per tenere un passo competitivo con Stati Uniti e Cina. Si tratta di questioni enormi sulle quali sarebbe lecito attendersi approfonditi dibattiti da qui a giugno, per mostrare ai cittadini come scelte che appaiono distanti determineranno in realtà conseguenze assai serie su ciascuno. Il nostro mondo politico ha invece reagito ignorando sostanzialmente Letta e concentrandosi brevemente sulle vere o presunte ambizioni di Draghi (presidente della Commissione? Nonno d’Europa?) per poi tornare in fretta a occuparsi degli scandaletti caserecci e di polemiche sempreverdi su ipotetiche derive totalitarie del Paese.
Bisogna a questo punto guardare nella nostra storia per investigare la ragione di questo ripiegamento ombelicale del discorso pubblico che ci cristallizza in una dimensione di beghe di provincia e, in prospettiva, può costarci sviluppo e benessere. Una plausibile ragione della paralisi nazionale (da trent’anni cresciamo meno dei nostri più prossimi partner europei, da trent’anni cala la qualità delle nostre classi dirigenti) può cercarsi nella mai superata questione giudiziaria e nel perdurante abuso politico delle vicende processuali. Uno degli effetti collaterali più gravi del biennio 1992-94 fu l’annichilimento, con le inchieste di Mani pulite, dei partiti politici che avevano costruito la Repubblica (e che avevano in verità costruito anche la sua rovina con anni di malversazioni). Quei partiti, la cui vera funzione non era affatto (come da vulgata grillina) quella di collettori di tangenti ma piuttosto di idee larghe, sono svaniti assieme alle loro culture senza essere rimpiazzati da null’altro che un presentismo rabbioso, nel quale le nuove formazioni politiche sono solo comitati elettorali di leader dal destino corto (la volatilità dei consensi ha spazzato via campioni d’una sola stagione al 34 o al 40 per cento). Per paradosso anche la magistratura, occupando lo spazio abbandonato dalla politica, ha finito per introiettare quei vizi che si proponeva di curare per via giudiziaria: il correntismo e lo scandalo del Csm al tempo di Palamara lo dimostrano. La fuga degli elettori nell’astensionismo crescente e la svalutazione del voto (venduto a 50 euro come un pacco di calzini) sono l’ultimo e più recente sintomo d’una transizione diventata in trent’anni crisi di sistema. Sicché non basta una riforma della giustizia, pur necessaria, a uscire dalla palude. È la politica che deve autoriformarsi, combattendo la sottocultura del tweet e ritrovando la forza del discorso complesso. Smettendo di chiedere alle Procure supplenza o legittimazione. E alzando lo sguardo, alleandosi o scontrandosi su grandi visioni di futuro. Lì fuori c’è l’Europa, l’ultimo treno che ancora ci aspetta. Non per molto.