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 2024  aprile 27 Sabato calendario

“IL NOME DELLA ROSA? NON LO VOLEVA NESSUNO. PAULO COELHO? NON CI AVREI SCOMMESSO UNA LIRA” – L’EX DIRETTORE EDITORIALE DI MONDADORI E BOMPIANI, MARIO ANDREOSE, OGGI ALLA NAVE DI TESEO, FA 90 ANNI E RICORDA LA STRONCATURA DEL ROMANZO DI ECO DA PARTE DI MORAVIA - "IL MAGGIOR RIMPIANTO? CALVINO. CHIAMAI LA VEDOVA, CHICHITA, E LE DISSI CHE IN BOMPIANI STAVAMO INAUGURANDO UNA COLLANA DI CLASSICI CONTEMPORANEI. E LEI, PRIMA DI CHIUDERMI IN FACCIA IL TELEFONO, MI DISSE: “MAI CON LO STESSO EDITORE CHE PUBBLICA MORAVIA” – GLI SPAGHETTI AL SUGO DA MARELLA AGNELLI: "SOLO UNA VOLTA L’HO VISTA SBUFFARE: QUANDO L’AVVOCATO…” -



Mario Andreose, che regalo vorrebbe per i suoi 90 anni? «Un bel regalo della vita è poter continuare a fare quello che sto facendo: occuparmi di libri».

Lo fa da sempre: oggi è alla Nave di Teseo, ma, dopo essere stato un forte lettore, è stato per anni in casa Mondadori, Saggiatore, Fabbri e Bompiani, quasi sempre come direttore editoriale. In fondo, Andreose si occupa stabilmente di libri sin da quando, sul finire degli anni Cinquanta, giovane veneziano alto e charmant, arrivò a Milano con l’idea di fare il giornalista.



Poi però rispose a un’inserzione sul giornale: Il Saggiatore cercava un correttore di bozze. «Dovevo pur pagare le bollette. Papà faceva il fornaio e qualche volta beveva troppo, mamma era casalinga e io sono cresciuto con l’ossessione di mantenermi. Sin da quando, a Venezia, prendevo il cappuccino con Arrigo Cipriani in uno dei tanti caffè delle Zattere».

(...) Umberto Eco, con Il nome della rosa, fece un connubio perfetto tra nicchia e popolarità. «Pensi che quel libro non lo voleva nessuno e all’estero arrivò con fatica. Ricordo bene la sentenza di Moravia: “Ha messo in romanzo le sue conoscenze da professore”. Il thriller medievale di un professore di semiotica aveva fatto storcere il naso sia agli accademici che ai critici letterari in Italia.

In America l’editor di Farrar, Strauss & Giroux, David Rieff, gli preferì Il giorno del giudizio di Salvatore Satta. Lo storico editore francese di Eco, Seuil, lo rifiutò, anche se poi se ne pentì e fece carte false per avere Il pendolo di Foucault».

Poi arrivò lei e divenne il suo responsabile dei diritti internazionali. «Quando ci incontrammo, io ed Eco ci trovammo subito in sintonia perché io, per lui, potevo essere un buon gancio internazionale. Lui aveva lavorato alla Bompiani da diciassette anni, come redattore e consulente editoriale, conosceva benissimo i meccanismi dell’editoria».

Infatti oggi i libri di Eco continuano ad essere venduti anche all’estero.  «Quando cominciai a lavorare con lui mi confidò che da otto anni aveva pronto quello che considerava il suo capolavoro. Poi un bel giorno, in un caffè di Bologna, mi passò un sacchetto di plastica del supermercato: dentro c’era il dattiloscritto del Pendolo di Foucault. Umberto era così: coltissimo e divertente».

È vero che amava fare l’attore e suonare il flauto dolce? «In estate organizzava delle messe in scena teatrali per gli amici. Lui e il pittore Emilio Tadini recitavano antiche commedie in francese, con la scenografia di Gae Aulenti e le musiche di Gianni Coscia. Fingevano di litigare ma qualche volta il risultato era così realistico che qualcuno di noi si precipitava a separarli. Poi, cosa che non tutti sanno, faceva a gara con Moni Ovadia a chi raccontava la barzelletta più politicamente scorretta».

Eco ha scritto fino alla fine, nonostante la malattia. «Lo accompagnavo io in auto a fare la chemio, ascoltavamo Chopin e ridevamo di tutto. D’altra parte, anche Leonardo Sciascia scrisse racconti bellissimi mentre era in dialisi».

C’è qualche autore o autrice che in passato lei avrebbe voluto portare in una delle sue squadre senza riuscirci? «Le dico un nome eccellente: Italo Calvino».

Da Mondadori a Bompiani? «Sì, chiamai la vedova, Chichita, e le dissi che in Bompiani stavamo inaugurando una collana di classici contemporanei. E lei, prima di chiudermi in faccia il telefono, mi disse: “Mai con lo stesso editore che pubblica Alberto Moravia”».

Mamma mia. «Confesso che non ho ancora capito il perché di quella reazione così veemente».

(...)

In Bompiani, però, arrivarono Andrea De Carlo e Pier Vittorio Tondelli, due autori che hanno ridisegnato l’idea di «giovinezza» novecentesca. «Molto si deve allo straordinario talento di Elisabetta Sgarbi. Pensi che lei cominciò come ufficio stampa alla Bompiani. La convocai, le dissi quanto avrebbe preso di stipendio e lei, con educazione — e devo dire anche un po’ di timidezza —, salutò e se ne tornò nella sua dimora in campagna, nel Ferrarese. Iniziai allora a “corteggiarla” e qualcuno mi suggerì di ingraziarmi la madre.

Presi l’auto e andai fino a Ro Ferrarese, dove viveva la signora Rina Cavallini. Mi ricevette in salotto e io cominciai a parlare di Eco, Moravia, Cunningham. Dopo due minuti capii che era fatta, la mamma era stata convinta. Poi anche Elisabetta accettò».

Sgarbi ha un fiuto editoriale raro. Chi avrebbe mai preso Jon Fosse? Ed ecco che il norvegese ha vinto il premio Nobel. «Sì, le faccio un altro esempio, forse il più eclatante: quando si mise in testa di far entrare in Bompiani uno come Paulo Coelho, nemmeno io la spalleggiai, non ci scommettevo una lira. E invece oggi Coelho è un successo commerciale che dura da decenni».

Poi, ad un certo punto, con i Berlusconi che si profilavano all’orizzonte del nuovo assetto Mondadori-Rizzoli (con Marina alla guida), lei, Sgarbi, Eco e altri «usciste» per fondare una nuova casa editrice, La Nave di Teseo. «Era Umberto che premeva più di tutti, perché non voleva che i proventi dei suoi libri, ormai alle stelle, finissero a Berlusconi, uno che aveva avversato per tutta la vita. Molto importante fu anche la presenza di Sandro Veronesi. E ovviamente, cardine di tutto, oggi è Elisabetta».

Qualche rimpianto per un’autrice o un autore che non vi hanno seguito?  «Ma se ci hanno seguito quasi tutti!»

Scurati no, per esempio. «È vero, qualche “big” non lo ha fatto. Un rimpianto ce l’ho, a dire il vero: avrei voluto portarmi dietro le opere di Camus. E anche Yasmina Reza, che è invece andata alla Adelphi».

Qual è stata la grande lezione, per lei, di Valentino Bompiani? «Innamorarsi degli autori ancor prima che dei libri. Lui fece tradurre Uomini e topi di Steinbeck da Pavese, non dimentichiamolo».

Andreose, sia sincero: chi è un’autrice o un autore che secondo lei, negli anni, è invecchiato male, sul piano letterario? «Domandona. Non saprei, perché, vede, anche lo stesso Moravia nella sua vastissima produzione ha scritto cose importanti e meno importanti, ma possiamo dire che sia invecchiato male? No, a mio avviso».

(...) Lei corteggia benissimo. «A Moravia, per dire, ero solito portare il libro fresco di stampa, nella sua casa romana. Un giorno, però, arrivai la mattina presto e trovai l’ambulanza. Mi precipitai nell’appartamento e vidi che era già arrivato Enzo Siciliano. Capii subito, ma volli lo stesso andare in bagno, per vedere un’ultima volta il grande scrittore.

Era riverso sul pavimento, con indosso ancora l’asciugamano, aveva appena fatto la doccia. Il libro che gli avevo portato era Vita di Moravia scritto in forma d’intervista con Alain Elkann e in cui dedicava solo sei righe al rapporto con Bompiani».

Patricia Highsmith era da tempo residente in Canton Ticino e lei andò a trovarla fin lì. «Negli Anni 90, quando si era ritirata in quell’angusto ritaglio di Svizzera. Ho ancora sulla pelle una sensazione di claustrofobia: la casa umida, i gatti, lei che beveva tanto».

Lei ha lavorato anche con gli Agnelli, quando Marella scriveva qualcosa c’era l’Adelphi che volentieri la accoglieva. Che tipo era? «Colta ma gaudente. Ogni riunione nella sua villa era seguita da ottimi spaghetti al sugo. Solo una volta l’ho vista sbuffare: quando l’Avvocato insistette per appendere in camera uno splendido dipinto di Renoir, la Bagnante bionda.

Una bellissima donna nuda. «Esatto».