Domenicale, 21 aprile 2024
Biografia di John Coltrane
L’opera discografica A love supreme ha cambiato il corso della storia del jazz così come è stato nel 1959 per Kind of Blue di Miles Davis, alla quale registrazione John Coltrane partecipa in veste di solista assieme a Cannonball Adderley e Bill Evans. Il leggendario sassofonista di Hamlet entra nello studio di Rudy Van Gelder a Englewood Cliffs in New Jersey e il 9 dicembre del 1964 incide uno dei dischi più ascoltati della storia nel pieno bailamme degli anni 60, caratterizzati dalla moda delle religioni orientali, degli Hare Krishna e della ricerca spirituale. Figlio di un sarto con la passione per la musica e giovane frequentatore della chiesa battista, “Trane”, classe 1926, è alla perenne ricerca di una strada personale che lo porta prima alla scoperta delle droghe e poi al fortunato (nonché conflittuale) incontro con Davis che lo colloca nell’olimpo dei grandi solisti. È in questo delicato momento che Coltrane affronta il passaggio tra il bebop e il free operando in un melting pot di culture africane e indiane miste alla sperimentazione e alla contaminazione modale con profumi di blues, gospel e bebop.
Nasce così un disco che incarna una nuova musica evocativa e invocativa che travalica il sacro e che accoglie e abbraccia tutte le religioni nel bisogno, attraverso lo strumento della musica, di elevarsi verso l’ignoto tramite una preghiera laica composta da suono e melodia, canto e silenzio. Un percorso di ricerca intrapreso quattro anni prima della registrazione assieme al suo quartetto stellare composto, oltre che dal leader, da McCoy Tyner, Jimmy Garrison e Elvin Jones e che confluisce in una opera che scardina l’equilibrio mainstream teso tra composizione e improvvisazione avvicinandolo alla sacralità di opere ben più complesse, nella scrittura per larghi organici, di alcuni grandi del Novecento come Aleksandr Skrjabin, Olivier Messiaen, Igor Stravinsky e Arvo Pärt. La suite, divisa in quattro parti con gli esplicativi titoli, Acknowledgement, Resolution, Pursuance e Psalm, forma un’opera assimilabile a un canto gregoriano contemporaneo che risulta nuova e dirompente per il mondo del jazz e che traccia un solco profondo nella storia, complici i lavori Ascension e Meditations pubblicati poco prima della sua morte avvenuta nel 1967 all’età di quarantuno anni.
Una vita artistica la sua che, seppure breve, ha lasciato un segno indelebile al punto da avere ispirato un culto e una chiesa che lo venera come un santo. Ogni domenica, infatti, nella St. John Coltrane African Orthodox Church di San Francisco, lo si celebra cantando e suonando A Love Supreme. Il suo fraseggio inquieto e irrequieto, quasi logorroico e a tratti debordante, e la sua incessante e quasi maniacale ricerca del suono e del fraseggio risultano dirompenti e pongono l’atto creativo al centro del suo viaggio meditativo e spirituale, congiungendo così la voce interiore dell’anima con l’universo. Un lascito prezioso, quello coltraniano, che ha tuttora un forte ascendente sui musicisti e sugli appassionati non solo della musica afroamericana, facendo sì che A Love Supreme sia un’opera che travalica il tempo e lo spazio. Ashley Kahn, autore dello straordinario libro A Love Supreme – Storia del capolavoro di John Coltrane, pubblicato in Italia per i tipi de Il Saggiatore nel 2019, scrive: «Questo album sta a Coltrane come il discorso di Washington Mall sta a Martin Luther King Jr, come il sermone della montagna a Gesù Cristo».
Ma cosa è realmente A Love Supreme e cosa lascia?
Nelle note di copertina dell’album vergate a mano, Coltrane si rivolge a Dio con una preghiera laica che sa di suono e questa diviene un inno interiore che anela al divino. Una invocazione necessaria e contemporanea nella sua attualità, perché mai come in questo momento c’è bisogno di permeare la società e l’uomo che la compone con l’amore e il ringraziamento, unici e veri strumenti capaci di condurci per mano verso la bellezza e verso quel dialogo che sembra mancare. Nella prefazione del libro il batterista Elvin Jones racconta della seduta di registrazione durante la quale poco si parlò dell’aspetto spirituale che Coltrane comunicava essenzialmente attraverso il suo essere e con il suo suono. Alla domanda del cosa sia stata per lui quell’opera risponde: «Musica… la chiamerei solo così».
Di certo è musica straordinaria ma l’eco della stessa, a cinquant’anni dalla ormai mitica seduta di registrazione, conferma che in questa si nasconde l’inafferrabile essenza dell’arte intesa come strumento per dialogare con il Magnum Mysterium della fede.