Domenicale, 22 aprile 2024
Sull’ultima Biennale di Venezia
Spalle al muro. È difficile riassumere una mostra che si intitola «Stranieri ovunque». All’ingresso il titolo compare scritto al neon e con la schwa, opera del duo italiano Claire Fontaine, come a fugare subito il dubbio che non si possa essere stranieri pur essendo del luogo e che, per rientrare nella categoria, sia sufficiente una qualsiasi deviazione dalla norma. Attenti, dunque, noi che entriamo: se la mostra ci lascia indifferenti, se ci irrita, se non entriamo in sintonia con la sequela di immagini etnografiche, narrative, illustrative, infantili, decorative e spesso al limite dell’estetica da souvenir e della retorica del diverso, siamo probabilmente in torto: troppo normali e parte del Nord del mondo e per apprezzare opere provenienti dal suo Sud, cioè da quei continenti e da quei Paesi che normalmente la Biennale misconosce.
La rassegna centrale, che il curatore Adriano Pedrosa, il primo proveniente dall’America Latina nella storia della manifestazione, ha allestito come di prammatica nel padiglione dei Giardini e in parte dell’Arsenale, espone 331 artisti, la maggior parte dei quali non ha mai partecipato alla Biennale. Nell’attuale sessantesima edizione si incontrano opere provenienti dall’America Latina, dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia, connotate tra l’altro da un’area di artisti storici, una di astrattisti, di ritrattisti e una serie di esperienze più propriamente recenti anche dal punto di vista tecnico, con installazioni e filmati.
Le proposte si articolano e si diversificano, portandoci dalla pittura murale colorata, animata, a suo modo monumentale, sulla facciata del padiglione centrale ai Giardini, realizzata dal collettivo indigeno dell’amazzonia MAHKU, fino agli astrattisti del XX secolo, rallegrati da mille bambù colorati come bacchette magiche; più tardi arriva la diaspora di artisti italiani le cui opere dimenticate, spesso piccole ed eleganti, sono esposte sui cavalletti inventati per il museo MASP di San Paolo dall’architetta italiana Lina Bo Bardi, vissuta in Brasile. L’intrecciarsi delle identità geografiche dei protagonisti è continua, fino a convincerci che l’appartenenza a una comunità stabile è cosa quasi trapassata.
Naturalmente c’è un’area dedicata alla sensibilità omosessuale, dove spicca il quadro perturbante di Louis Fratino Kissing my Foot, ma dove appaiono anche opere del nostro troppo poco amato Filippo De Pisis. Nel giardinettto allestito da Carlo Scarpa troviamo la scultura di bronzo del gruppo di Dallas Puppies Puppies: un corpo in transizione tra lo stato maschile e quello femminile che, nella sua fissità classica, perturba ma non ferisce, anzi asserisce una condizione che appartiene a sempre più giovani decisi a ricostruire dalle fondamenta la propria vita. Il tema torna con video sull’identità non binaria e con il murale del gruppo Aravani Art Project, composto da donne cis e transgender, tese a dare della disforia di genere una lettura positiva, vitale e quasi fantascientifica.
Anche la fantascienza, del resto, è presente in questo caleidoscopio di attitudini, dalle figure spaziali del ceramista faentino Victor Fotso Nyie, ma camerunense di origine, all’astronauta vestito di batik del famoso (uno dei pochi) Yinka Shonibare, in apertura della sezione seconda all’Arsenale.
Nel percorso si ripetono poi i contributi di artisti che utilizzano la stoffa sotto forma di arazzo, ricamo, stampa manuale, straccio recuperato e ogni altra maniera in cui è stata utilizzata come elemento per decorare la casa o per costruirla, intendendo come casa la dimora sovente temporanea dei nomadi o gli spazi costruiti per una vita stanziale, rurale, condivisa con più famiglie e animali. La testimonianza più dura dell’uso di stoffa è la sindone che la messicana Teresa Margolles ha realizzato con il corpo di un venezuelano ucciso in Colombia durante un tentativo di fuga dal suo paese, come del resto accade a molti suoi conterranei. Non manca una critica socio-storica meno simbolica, di carattere filmico e documentario, con la ricostruzione, per esempio, dell’amicizia strategica e forse umana che legò Gheddafi a Silvio Berlusconi. L’autrice è l’italiana residente a Londra Alessandra Ferrini.
Cile, Messico, Argentina, Colombia, Porto Rico, Guatemala, Kenya, Zimbabwe, Angola, Sud Africa, Singapore, Indonesia, Medio Oriente e Venezia: troppe le tappe percorse dal curatore per poterle testimoniare tutte; certamente le abitudini percettive del cosiddetto Occidente cedono il passo ai modernismi del Sud Globale, di chi è queer (strano) per eccellenza ma non per scelta, di chi ci potrebbe insegnare come affrontare la condizione di marginalità e di mancata partecipazione alla lotta per il successo, il denaro, la fama e tutti i miti del consumo di sé che connota il “nostro” mondo ricco e ansioso.
Tuttavia, dopo questa cavalcata tra storie e immagini edificanti, si è un po’ stanchi di disegni di sapore primario e pietre falsamente primitive, tra palme esotiche e rappresentazioni del diverso che abbiamo spesso già visto su cestini o ricamini comperati in un viaggio. Le terre sono troppo connesse, il mondo è diventato troppo piccolo, il gioco è diventato troppo grande e conflittuale perché possiamo accontentarci di un’idea dell’alterità così semplice: l’altro non è solo il diverso. E se invece l’altro fossi anche io? «Je est un autre», scriveva già Arthur Rimbaud. E se il viaggio fosse una metafora così antica da non dovere essere ribadita in modo didattico, attraverso i percorsi dei migranti disegnati su carte geografiche, come fa in mostra il Gruppo Storico Italiani Ovunque? Viene in mente uno splendido libro, Espulsioni di Saskia Sassen (2014), dove la studiosa ci accompagna per il mondo attraversandone le zone d’urgenza senza alcun compiacimento. A conti fatti, questa mostra che vorrebbe essere chiara finisce per diventare semplicistica.
Ma si può dire? Temo di no. Penso di avere le spalle al muro, come dicevo all’inizio. Non si può criticare una mostra che parla di identità subalterne, a meno di essere presi per esponenti tipici dei popoli dominanti. E succede che si esce dalla mostra sentendosi parte di una minoranza coloniale e violenta, invece che di un gruppo dall’identità incerta, di un mondo così in subbuglio che arriva fino al Canal Grande, di una crisi dilagante che ci riguarda da vicino senza pietà per nessuno. Questo non è il momento storico per parlarci di dominanti e dominati, di autentici e d’inautentici, di chi sta meglio e chi sta peggio, perché guerra, sterminio, perdita di qualsiasi maltolto tra cui la libertà e la salvezza, non sono mai stati così vicini. Pressantemente vicini a tutti compresi noi, presunti protagonisti di vite privilegiate.