La Lettura, 21 aprile 2024
Sulle lotte dei minatori del Sulcis
Uomini in marcia è un documentario con la regia di Peter Marcias e l’impeccabile montaggio di Fabrizio Federico, ritmico e incalzante, con un sonoro che ne esalta la drammaticità. Nei 70 minuti di filmato le lotte degli irriducibili minatori della Sardegna del Sulcis Iglesiente – una delle classi lavoratrici più forti e longeve del Novecento europeo – si intrecciano con la storia del movimento operaio italiano lungo un secolo di rivendicazioni per i diritti del lavoro.
Tutto nasce da un evento di cui si vedono all’inizio le immagini più significative, l’eccidio di Buggerru, che il 3 settembre 1904 – 120 anni fa – provocò quattro morti e molti feriti a causa dell’intervento dell’esercito regio nel corso di uno sciopero nella miniera Malfidano. I minatori protestavano perché dal giorno precedente era stata tagliata di un’ora la pausa lavorativa. La settimana prima a Cerignola, in Puglia, nel corso di una manifestazione cinque contadini avevano perso la vita durante scontri di piazza contro i militari. A causa di quei fatti il 15 settembre 1904 la Camera del lavoro di Milano proclamò il primo sciopero generale nazionale, che coinvolgeva tutte le categorie dei lavoratori.
La storia dei minatori del Sulcis Iglesiente è stata una storia di dura fatica, di irriducibili lotte sindacali e di morte: dal 1860 al 1990 hanno perso la vita nelle gallerie di tutta la regione 1.572 operai, ai quali si devono aggiungere quelli deceduti per silicosi o mercurialismo. Frane, esplosioni delle mine, gas, quello che i lavoratori del sottosuolo chiamano «aria morta», e poi stacchi di roccia, cadute dai pozzi. Lo sciopero, una delle prime piattaforme sindacali elaborate in Italia, fu proclamato a Buggerru per chiedere di portare l’orario giornaliero a otto ore, la distribuzione quotidiana dell’acqua potabile, l’aumento del salario e l’abolizione delle multe. Il prefetto nella sua relazione scrisse che sparare sulla folla era stata «un’operazione di pulizia, l’effetto morale sarà tale e grande da stroncare alle radici ogni senso di ribellione ai malintenzionati».
Voce narrante e collante del documentario è Gianni Loy, professore di Diritto del lavoro dell’Università di Cagliari, che spiega il senso di questa «marcia» verso quell’idea di Repubblica costituzionale «fondata sul lavoro», il passaggio dal rapporto feudale dei primi del Novecento al corporativismo del fascismo, il diritto allo sciopero e quel conflitto sociale capace di creare negli anni successivi migliori condizioni di vita per i lavoratori.
Scorrono immagini di braccianti siciliani del dopoguerra che manifestano a cavallo, le coppole in testa e in mano le bandiere, i rudi cafoni del sindacalista Giuseppe Di Vittorio, di cui si sente la voce liricamente barricadiera, che voleva «liberare i negri di sempre» dalla povertà e dalla schiavitù, difendere «la categoria dei lavoratori più poveri, più esposti alla miseria quotidiana, all’abbandono, alla disperazione, a uno sfruttamento spietato» quando parla con passione a un comizio ricordando le sue origini umili, prima di essere sovrastato dal boato della folla vociante.
Passato e presente si mischiano: dopo l’esercito regio è la polizia che reprime i contadini di Avola, in Sicilia, che chiedono pane e lavoro e ricevono in cambio piombo, si vede il muso di un cane nero da guardia che abbaia furioso, braccianti agricoli che raccontano in un bianco e nero sgranato la morte di un figlio, quella di un fratello, le maschere tragiche delle donne in lutto vestite di nero lungo le strade di polvere che tagliano i latifondi. Un gioviale Mario Scelba, ministro della Pubblica sicurezza del dopoguerra, testa calva e occhiali da vista dalla montatura nera, seduto nel suo studio dietro una scrivania, in un filmato di repertorio spiega con soave dolcezza l’attività prodigiosa dei suoi uomini: «I reparti celere sono una specie di cavalleria motorizzata della polizia, operano come opera la cavalleria, un reparto a cavallo lanciato contro una folla, il reparto è deciso a passare, senza preoccuparsi che qualcuno vada a finire sotto le gambe dei cavalli». Dice ridanciano, quasi divertito: «Vi erano alcuni così bravi da diventare popolari come i cavalieri nelle corse internazionali». Sta parlando dei celerini che sparavano su operai e contadini in sciopero a Melissa (1949), tre morti; Torremaggiore (1949), due morti; Reggio Emilia (1960), cinque morti; civili inermi tutti iscritti al Partito comunista, quelli cantati da Fausto Amodei in una celebre canzone, quegli 86 lavoratori uccisi dalla polizia tra il 1947 e il 1968.
«Il documentario parte dalla Marcia per lo sviluppo del 1992 e 1993 nel Sulcis Iglesiente – mi spiega il regista oristanese Peter Marcias —. Mi colpirono molto quando vidi alla Cineteca di Carbonia le immagini restaurate, il coinvolgimento della gente, un moto popolare pacifico che coinvolse 27 Comuni per chiedere uno sviluppo reale del territorio, i cittadini che uscivano dalle case per marciare con le lavoratrici e i lavoratori; sono partito da quei volti sofferenti, dalla gente che chiedeva risposte».
Da quel microcosmo isolano al continente il passo è stato breve. «Con il montatore Federico abbiamo costruito una narrazione allargata a quello che è successo in Italia in questi anni, il sentimento che ha animato i lavoratori italiani dal dopoguerra a oggi, utilizzando repertori dell’Istituto Luce, della Rai, dell’Archivio del movimento operaio».
Al suo sguardo su quegli anni ha legato anche quelli di due maestri del cinema internazionale – Ken Loach, Palma d’oro a Cannes per Il vento che accarezza l’erba, acclamato cineasta di impegno civile, e Laurent Cantet, autore di Risorse umane: «Sono registi che hanno raccontato benissimo le tematiche legate ai diritti del lavoro, era naturale coinvolgerli; Cantet l’ho incontrato a Carbonia, aveva molta cognizione del territorio; Loach mi ha rilasciato una lunga intervista ma ho montato solo alcuni pezzi, anche lui conosceva il Sulcis, le lotte sindacali, le lacerazioni provocate dalla chiusura delle miniere». È un tributo alla gente sulcitana, alla sua storia: «Ci tenevo a raccontare questo territorio così maltrattato, mal gestito dalla politica, di una bellezza struggente».
Poi c’è un cambio di stagione, arrivano il 1968 e «l’autunno caldo», ancora cortei, minatori sardi con gli elmetti gialli e la lampada accesa che sfilano, giovani barbuti che indossano gli eschimi, Dalida canta febbrile Quelli erano giorni, ripete «noi ballavamo un po’ e senza musica/ Nel nostro cuore c’era molto più», e dopo anni di lotte operaie nel 1970 arriva anche lo Statuto dei lavoratori. Spiega Gianni Loy che quello strumento «limitava il potere datoriale, perché prima era assolutamente illimitato, ciascuno poteva licenziare quando voleva e chi voleva senza nessuna motivazione». Il padre della legge è Gino Giugni, ma l’ispiratore il ministro socialista del Lavoro e della previdenza sociale Giacomo Brodolini, che va a parlare in una fabbrica occupata e si schiera a fianco degli operai. Con la voce roca, definisce il caporalato la «pratica inumana, medievale, incivile dell’ingaggio di piazza della manodopera». Aggiunge che «i lavoratori non sono bestiame pesante, sono uomini partecipi di un processo di sviluppo».
La grande industrializzazione successiva crea benessere diffuso ma anche danni alle città, disastri ambientali, malattie che annientano vite e devastano famiglie. Le immagini di fumi in mare mostrano combustioni di materie plastiche alla Sir di Porto Torres, incidenti alla Montedison di Priolo, a Ragusa, a Siracusa, all’Anic di Mirano e Manfredonia. Il mondo post-industrializzato di oggi mostra precariato, soprattutto nella logistica, e nell’e-commerce, e nella gig economy dei lavoretti. Un metalmeccanico racconta la disgregazione della classe operaia, la fine della politica e del vincolo sociale, il conflitto generazionale e la distanza tra i vecchi e i giovani che si vergognano di dire che lavorano in fabbrica. Il regista Cantet afferma che «la memoria di questo luogo è scritta nel paesaggio, ma per i giovani quella è la preistoria, è questo il rapporto con il nostro passato operaio, non vogliamo più vederlo, una volta c’era l’orgoglio di appartenere a una classe operaia così forte». Ken Loach sostiene invece che bisogna «lottare per il clima. L’emergenza climatica è già alle porte, alcune zone del mondo diventeranno inabitabili, stiamo perdendo le foreste pluviali, la temperatura aumenterà, dobbiamo muoverci velocemente». Il guru del cinema antagonista sostiene con ponderata saggezza: «Fino a qualche tempo fa pensavamo che se non avessimo vinto questa volta avremmo vinto la prossima, o quella dopo ancora, o tra 20 o 50 anni. Dicevamo: vinceremo. Non abbiamo più questo lusso, non abbiamo più il lusso del tempo».
Dieci anni fa andai nel Sulcis Iglesiente per scrivere il reportage narrativo Addio (Chiarelettere, 2016). Raccontavo cosa succede quando finisce il lavoro, la meccanica sociale nefasta che si produce; arrivai a Carbonia e mi colpì l’insieme di archeologia industriale e natura, quel senso di primitivo che resta nel paesaggio. Mi spostavo in paesi come Iglesias, Fluminimaggiore, Gonnesa, Ingurtosu, «la valle delle anime fredde», dove si scende verso Piscinas nella grande spiaggia con il mare oceanico e le dune modellate dal maestrale, intervistando ex minatori, sindacalisti, religiosi, assistenti sociali, psichiatri. Incontrai persone indimenticabili come Manlio Massole, maestro e scrittore, che – come fece Simone Weil andando in fabbrica per scrivere La condizione operaia — per capire i minatori lasciò l’insegnamento e finì con loro nel sottosuolo. Per farlo fu costretto a falsificare il libretto del lavoro e il titolo di studio, abbassando quest’ultimo alla licenza elementare, perché con il diploma non lo avrebbero preso.
I dati di allora erano i peggiori d’Europa, disoccupazione giovanile al 73,9%, molti ricominciavano a emigrare nel nord Europa, il 40% degli abitanti in età da lavoro era a spasso, le indennità di disoccupazione diecimila, aumentavano le malattie psichiatriche, il consumo di psicofarmaci e sostanze stupefacenti, il gioco d’azzardo di slot machine e gratta e vinci. Nella zona industriale di Portovesme, il cosiddetto polo dell’alluminio, stavano chiudendo tutte le fabbriche, gli operai dell’Alcoa presidiavano da mesi lo stabilimento. Di quelle macerie restavano però i rifiuti tossici in una delle 43 zone ad alto rischio ambientale italiane di vecchie miniere abbandonate, fabbriche dismesse e discariche.
Nel documentario la sintesi politica giusta è quella dell’ex presidente della Sardegna Antonello Cabras: «Il nostro territorio ha avuto sempre dall’esterno la spinta a crescere: prima nel bacino metallifero con investitori esteri, poi durante il fascismo con la creazione della città di Carbonia, poi ancora con le Partecipazioni statali... Finite queste leve esterne non abbiamo avuto la forza, l’ingegno, la cultura, di provare a fare da noi».
«Oggi la situazione è peggiorata – mi spiega Carlo Martinelli, che lavorava all’Alcoa, per tanti anni cronista di “Sardiniapost” —. C’era la possibilità di riaprire la nostra azienda ora in mano alla Syder Allois, ma questa impresa non ha le capacità finanziarie per fare ripartire la fabbrica, ferma dal 2012; e i lavoratori sono ancora in mobilità a 450 euro al mese». Anche l’Eurallumina è chiusa dal 2009, e tra poco chiuderanno la centrale elettrica Grazia Deledda. Ma una buona notizia almeno riesce a darmela: «La Rwm di Domusnovas, dove vengono prodotte armi per la Nato e l’Ucraina, sta assumendo». È soprannominata «la fabbrica delle bombe insanguinate», ha 480 dipendenti ma ne ha bisogno di almeno altri cento per produrre i nuovi droni da spedire a Kiev.