La Lettura, 21 aprile 2024
La biografia di Bergoglio
«La nostra vita è il libro più prezioso che ci è stato consegnato», ha detto Papa Francesco nel ciclo di catechesi tenuto nel 2022 sul tema del discernimento. È un libro, ha aggiunto, «che tanti purtroppo non leggono, oppure lo fanno troppo tardi, prima di morire». Riflessione che riguarda qualsiasi essere umano, poco importa se credente o non credente: riesaminare la vicenda della nostra esistenza ci riconnette con gli altri, con il mondo che ci circonda, contestualizza la nostra piccola storia nella Grande Storia di cui facciamo parte.
Esattamente così si svolge il racconto della vita di Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco, sul soglio pontificio dal 13 marzo 2013. La lettura di Life. La mia storia nella Storia, che il pontefice ha scritto con Fabio Marchese Ragona, giornalista e vaticanista di Mediaset, per HarperCollins, procede su questo binario destinato a incontrare l’interesse di qualsiasi lettore appassionato dei protagonisti della contemporaneità. La fede è altra questione, il libro è interessante per comprendere i tempi in cui viviamo: giornalismo e, insieme, storia contemporanea. In questa chiave Marchese Ragona svolge il ruolo di narratore, di «contestualizzatore». Nell’incipit spiega come lo scoppio della Seconda guerra mondiale in Argentina (trattandosi di terra «quasi alla fine del mondo» rispetto all’Europa, come ricordò Francesco affacciandosi dopo l’elezione dalla loggia delle benedizioni di San Pietro) fosse poco percepita quando Jorge Mario aveva quasi tre anni. Per contrasto con l’ascolto dell’annuncio storico alla radio da parte di suo padre Mario Bergoglio, il Papa torna col ricordo agli affetti familiari: nonna Rosa, nonno Giovanni, il fascino dell’Otello di Giuseppe Verdi alla radio spiegato dalla mamma, poi più tardi la scoperta del cinema con Roma città aperta di Roberto Rossellini o I bambini ci guardano di Vittorio De Sica.
Anni e anni dopo, la storia personale diventa davvero Storia. Siamo nell’Argentina del golpe di Jorge Rafael Videla, una delle pagine più buie del secondo Novecento. In un breve passaggio Bergoglio rivela: «In quel periodo mi presentarono il caso di un ragazzo che aveva necessità di fuggire dall’Argentina: notai che mi somigliava e così riuscii a farlo scappare vestito da prete e con la mia carta d’identità. Quella volta rischiai molto perché, se lo avessero scoperto, senza alcun dubbio lo avrebbero ucciso e poi sarebbero venuti a cercare me». Non ci sono nomi, sono volutamente poche righe. Ma lì la Storia pesa davvero perché Bergoglio era il Padre superiore dei gesuiti della Provincia argentina: stagione ricca di vocazioni. Agli occhi dei golpisti potevano essere preti «che davano una lettura del Vangelo con una ermeneutica marxista».
Bergoglio racconta anche della morte violenta di monsignor Enrique Angelelli, vescovo di La Rioja, attentissimo ai poveri e ai loro problemi nel solco del Concilio Vaticano II, un’opera sovversiva agli occhi di Videla e del suo regime. Racconta Bergoglio: «Angelelli, che aveva anche informato il nunzio apostolico in Argentina, monsignor Pio Laghi, delle minacce di morte ricevute, fu ucciso il 4 agosto 1976 mentre era alla guida della sua auto in compagnia di un altro sacerdote, Arturo Pinto, che, creduto morto, si salvò. La vettura su cui viaggiavano fu speronata e fatta precipitare in un burrone. Il caso fu archiviato il giorno stesso come incidente stradale». E qui Bergoglio, oggi Papa, ripensa a quei giorni e non fa sconti nemmeno a un porporato: «Ciò che mi ferì fu che l’allora arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Juan Carlos Aramburu, accettò la versione data dal regime». Però arriva subito una sorta di assoluzione: «Ma erano tempi difficili anche per la Chiesa! I mandanti dell’omicidio, due ex militari che collaboravano con il regime, sono stati individuati e condannati all’ergastolo soltanto nel luglio del 2014».
C’è un capitolo che sorprende, in particolare. Quello del cosiddetto esilio. Bergoglio, dopo essere stato per dodici anni ai vertici della Provincia argentina dei gesuiti o comunque con incarichi importanti, tra il 1990 e il 1992 viene messo in disparte. Il futuro pontefice viene spedito a Córdoba, a 700 chilometri da Buenos Aires. Chi conosce i meccanismi interni della Compagnia di Gesù sa bene che certe scelte non avvengono mai a caso, i vertici analizzano e decidono sempre per un motivo. E la spiegazione viene dal Papa Francesco di oggi: «In quel periodo prevaleva l’oscurità, un’ombra che mi portava a lavorare su me stesso, concedendomi di trasformare quella situazione in un’occasione di purificazione interiore. In quei momenti la spiritualità ignaziana fu il mio faro, ma sono anche convinto che il Signore mi abbia permesso di vivere quel periodo di crisi per mettermi alla prova e poter leggere meglio nel mio cuore. In quei quasi due anni pensai tanto al mio passato, al mio periodo da provinciale, alle scelte fatte in modo istintivo e personalistico, agli errori commessi per via del mio atteggiamento autoritario, tanto da esser stato accusato di essere ultraconservatore».
Accuse precise, un periodo psicologicamente molto buio, nel testo parla di depressione e solitudine, di letture continue per occupare il tempo. La sua occupazione era confessare, provvedere anche ai confratelli più anziani, accudirli e persino lavarli. Poi il tipico colpo di scena, la nomina a vescovo ausiliare di Buenos Aires: dall’esilio alla spettacolare ordinazione episcopale in Plaza de Mayo. Questo capitolo, grazie alla mediazione di Fabio Marchese Ragona, ci aiuta a capire certe asperità caratteriali che ha Bergoglio ancora oggi: alcune decisioni istintive, talune sue nomine contestate perché (si dice) decise sull’onda di una simpatia-empatia del momento.
Il materiale è ovviamente molto, perché la vita di un Papa è necessariamente densa. Ma restando sempre sul registro storia personale-Grande Storia, Bergoglio ci riporta alle ore della traumatica rinuncia al soglio pontificio di Benedetto XVI. È la mattina presto (a Buenos Aires) dell’11 febbraio 2013. Il telefono squilla sulla scrivania del cardinale Bergoglio, a chiamare è Gerry O’Connell, un amico giornalista: «Eminenza, si è dimesso il Papa». Poi mette giù la cornetta, deve lavorare.
Bergoglio ammette il suo assoluto stupore: «Rimasi per qualche secondo paralizzato, quasi non credevo a ciò che il mio interlocutore mi stava dicendo al telefono. Era una notizia che mai avrei immaginato di sentire nella mia vita: la rinuncia di un Papa era, infatti, qualcosa di inimmaginabile fino ad allora, nonostante sia prevista dal codice di diritto canonico. Tra me e me, nei primi momenti, dissi: “Avrò capito male, non è possibile”. Poi, però, compresi: sicuramente Benedetto aveva meditato e pregato a lungo prima di prendere quella storica e coraggiosa decisione. Evidentemente aveva capito, di fronte alle forze che lo stavano abbandonando, che nella Chiesa l’unico insostituibile è lo Spirito Santo e che l’unico Signore è Gesù Cristo».
Poi le pagine sulla sua elezione la sera del 13 marzo 2013, soprattutto il discorso del 9 marzo alla IX Congregazione prima del Conclave, contro l’autoreferenzialità della Chiesa: «Quel discorso fu la mia condanna! Meno di tre minuti che cambiarono la mia vita. Alla fine della mia relazione ci fu un applauso e poi mi dissero che da quel momento aveva iniziato a circolare il mio nome...». Invece aveva la testa proiettata su Buenos Aires e i biglietti di ritorno già pronti. Il resto è cronaca nota. Anzi Grande Storia dell’oggi.