La Lettura, 21 aprile 2024
Sull’improvvisa fortuna di Quarto potere di Orson Welles
Che sia venuto il momento di riscoprire Orson Welles? A chi ha una certa età e una certa frequentazione della storia del cinema la domanda suona stonata, ma per le generazioni più giovani, la cui memoria funziona spesso al ritmo di TikTok, può essere molto sensata. Specie se si guarda al successo (inaspettato) che sta avendo al cinema la riproposta di Quarto potere. D’accordo che è arrivato sull’eco di essere (stato) il film più bello del mondo, ma è pur sempre del 1941, in bianco e nero, con una trama piuttosto arzigogolata e senza una star a fare da richiamo. E invece in quattro settimane ha superato 197 mila euro d’incasso, lasciandosi abbondantemente alle spalle i 90 mila della riedizione di Psycho di Hitchcock, fino a ieri il campione di questi classici ritornati in sala.
I motivi? Forse ha ragione Jonathan Rosenbaum, grande critico e grande wellesiano, quando dice che «quanto ci ha lasciato (…) è un’eredità molto più ampia, e incomparabilmente più ricca di potenziali sorprese, di quanto chiunque fra noi avesse mai sospettato». La riprova ce l’ha data Alberto Anile che dopo aver pubblicato nel 2006 un delizioso e sorprendente Orson Welles in Italia, lo ripropone ora per La nave di Teseo ancor più ricco e più sorprendente.
Welles arrivò in Italia il 9 novembre 1947. Aveva lasciato l’America dove aveva capito di non essere più persona grata (anche in odore di comunismo per l’Fbi) senza terminare il montaggio del suo Macbeth. Avrebbe dovuto interpretare Cagliostro nel film omonimo prodotto dalla Scalera e diretto da Gregory Ratoff ma il suo soggiorno non si limitò ai cinque mesi delle riprese (comprese quelle girate all’interno del palazzo del Quirinale, prima che Enrico De Nicola ne prendesse possesso dopo la firma della Carta costituzionale il 28 dicembre). In Italia si fermò sei anni, «un record di permanenza nella sua vita inquieta» scrive Anile, che con lo spirito dell’investigatore e la pazienza di un certosino scandaglia quel periodo in ogni suo anfratto.
È proprio questa la prima qualità del libro, ricchissimo di aneddoti e di testimonianze: non trascurare nessun aspetto del soggiorno di Welles, dalla folcloristica vita mondana (tra le sue fiamme, prima della «sbandata» per Lea Padovani, anche Gina Lollobrigida e Franca Faldini), agli incontri (con Palmiro Togliatti, da Romualdo, «a piazza della Torretta, una pizzeria alla buona vicino a Montecitorio» e con Lucky Luciano, che secondo un rapporto dello spionaggio militare americano, avrebbe suggerito al regista un film sulla «vera storia della sua vita»), fino alle accoglienze dei suoi film in Italia (Quarto potere, uscito solo nel 1949, raccolse la quasi unanimità delle stroncature, compreso Flaiano che lo definì «barocco, truculento, di alta e inutile precisione»).
Ma naturalmente la parte del leone la fanno i suoi film, quelli realizzati e quelli solo immaginati o inseguiti. Dopo le peripezie per montare Macbeth mentre lavorava al Cagliostro e la sua decisione di ritirarlo dal concorso di Venezia, ma non dalle proiezioni, perché si aspettava che venisse stroncato (come in effetti avvenne), è l’Otello a conquistare più pagine nel libro, dalle peripezie produttive prolungatesi per due anni in giro per l’Italia e il Marocco (per fare un esempio, alle riprese si avvicendarono Alberto Fusi, Anchise Brizzi, Oberdan Troiani, Tonino Delli Colli, George Fanto, G. R. Aldo, Alvaro Mancori, Nino Cristiani e Giuseppe Rotunno) a quelle interpretative (la fine dell’amore con Lea Padovani costrinse Welles ad affidare il ruolo di Desdemona a Suzanne Cloutier e, brevemente, a Betsy Blair), per finire con la presentazione e il ritiro del film dalla Mostra di Venezia del 1951 (fu presentato l’anno dopo a Cannes).
Il lavoro di Anile diventa però fondamentale e utilissimo quando scopre i tanti progetti che Welles mise in campo e non portò mai a termine, come una Salomè che avrebbe dovuto essere prodotta da Peppino Amato (nelle sue carte c’è la sceneggiatura di 218 pagine) o un film based on a theme by Luigi Pirandello che avrebbe dovuto intitolarsi Masquerade, ispirato all’Enrico IV da Pirandello, di cui esiste una sceneggiatura di 170 pagine e per il quale fece anche un provino a Gisella Sofio nel ruolo della figlia di Enrico, il film dove Welles, scrive Anile, «si sarebbe messo più a nudo, negli angosciosi traumi familiari e in relazione al proprio credo religioso», due argomenti sui quali in vita aveva scelto di rivelare il meno possibile.