La Lettura, 21 aprile 2024
La battaglia della lingua
Un tempo le battaglie sulla lingua erano cose da parolai. «Glottomachia. Combattimento di lingua, contrasto di semplici parole; contesa in cui, andandosi d’accordo sulla natura della cosa, non si discorda che sull’espressione», recita – sulla scorta delle settecentesche Etymologiae sacrae — la definizione del Panlessico italiano (1839).
Da qualche anno a questa parte varie tensioni di tipo sociale, politico, culturale hanno reso la lingua uno dei campi di battaglia più frequentati dagli scontri ideologici. L’infuriare della lotta è ribadito, direttamente o indirettamente, da tre volumi di recente pubblicazione: Le guerre per la lingua di Edoardo Lombardi Vallauri (Einaudi), Lingua e genere di Fabiano Fusco (Carocci) e Lingua e discriminazione a cura di Daniela Pietrini (Peter Lang). E allora sarà bene tornare con qualche ulteriore considerazione sulla nuova, forse sarebbe meglio dire nuovissima, stagione delle guerre per la lingua: paralipomeni della neo-glottomachia.
Nel dicembre 1964, Pasolini pubblicava l’articolo Nuove questioni linguistiche, destinato a scatenare l’ennesima fase di quella questione lingua che ha attraversato per secoli la storia dell’italiano. Il rapporto tra lingua nazionale e dialetti, ancora al centro di quel dibattito, si è risolto oggi in una convivenza piuttosto armonica. Ma al fondo della provocazione pasoliniana c’era un’idea che, pur formulata un altro mezzo secolo prima, risulta ancora molto attuale. Quella per cui «ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua significa che si sta imponendo una serie di altri problemi», destinati – scriveva Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere — a «riorganizzare l’egemonia culturale».
Le nuovissime questioni linguistiche sono soprattutto quelle che discendono da una rinnovata sensibilità collettiva sui rischi e le conseguenze della discriminazione. Nel volume curato da Pietrini ci sono saggi su discriminazione ed etnia (su parole, ad esempio, come terrone o zingaro) e su discriminazione e corpo (sul lessico del body shaming e della body positivity), ma la sezione più ampia è riservata al rapporto tra discriminazione e genere. Ed è su questo specifico nucleo che insistono anche il libro di Fusco e – nella seconda metà, la prima è dedicata all’interferenza dell’inglese – quello di Lombardi Vallauri.
Tra i vari aspetti affrontati, ci sono gli stereotipi in cui talvolta continuano a cadere i libri di scuola («La mamma ha il grembiule, il padre il giornale»); i dizionari e il modo in cui la definizione della voce donna ha progressivamente preso le distanze dal vecchio «femmina dell’uomo»; la fraseologia e il rarefarsi di espressioni come gentil sesso nei più diffusi quotidiani italiani o, per contro, il persistere di espressioni come movente passionale, raptus, lite per gelosia nel racconto dei femminicidi. Ma l’attenzione – e la tensione – maggiore si concentra su tre specifici tratti linguistici: il femminile dei nomi di ruolo e professione (ministra, avvocata); il maschile non marcato («tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge»); le strategie di neutralizzazione del genere, comprese quelle che mirano a modificare le marche morfologiche del genere grammaticale (tuttu, tutt*, tutt@, tutte ).
Il diverso grado di accoglienza riservato a questi tratti è correlato alla maggiore o minore compatibilità con le strutture della lingua italiana. Casi come architetta, assessora, calciatrice, ingegnera, sindaca non fanno che applicare a nuovi nomi i modi con cui la lingua italiana ha sempre creato il femminile. «Chi è urtato da forme che non è abituato a sentire non deve preoccuparsi, perché ci farà preso l’abitudine come a tutte quelle a cui ha fatto l’abitudine dalla nascita», afferma Lombardi Vallauri. Anche se le cose, nell’italiano di oggi, non sono così semplici: e infatti Fusco si preoccupa – opportunamente – di confutare alcuni pregiudizi molto diffusi. «I femminili sono brutti e suonano male» (ma ingegnera suona come infermiera, ministra come maestra, sindaca come monaca); «c’è il maschile “neutro”» (se il nome indica il ruolo, perché Carlo è re e Elisabetta era regina?); «ci sono altre questioni ben più importanti della lingua» (ma «discutere della lingua non distoglie l’attenzione da mobilitazioni cruciali»: «la lingua e le parole riguardano la società, la vita privata e pubblica, non sono un accessorio della nostra esistenza»). Lo stesso Lombardi Vallauri, d’altra parte, difende le ragioni per cui «una donna che dirige un’orchestra può preferire che la si chiami direttore», dato che «per cause storiche direttrice tende a essere interpretato più in senso scolastico che musicale» (ma la creazione di una nuova abitudine non è legata proprio al superamento di quelle cause storiche?).
Le posizioni, in effetti, divergono nettamente quando si parla del maschile usato per riferirsi anche a persone di genere diverso. Lombardi Vallauri fa leva sulla convenzionalità del genere grammaticale in italiano, evidente quando si tratta di oggetti (l’armadio, la sedia) e spesso anche di animali (la lince, il ghiro), per sostenere l’opportunità di dire «“gli artisti incontreranno il pubblico alla fine dello spettacolo”, e non “gli artisti e le artiste”», visto che «il maschile non marcato per designare persone e cose è solo un obbedire all’economia strutturale della lingua». E allo stesso scopo illustra la presenza in altre lingue e altre epoche di questi «meccanismi economici “ciechi al significato” da cui origina il maschile non marcato». Nondimeno, provocazioni come quella del nuovo statuto dell’Università di Trento, in cui tutte le cariche sono declinate al femminile indipendentemente da chi le ricopra (la rettrice, la direttrice, eccetera), intendono proprio mostrare che l’estensione di un genere grammaticale sull’altro non è del tutto senza conseguenze. Dopo aver spiegato con grande chiarezza e numerosi esempi tratti da varie lingue del mondo la distinzione tra «genere grammaticale» e «genere sociale», Fusco evidenzia il fatto che «la grammatica mentale dei parlanti non coincide completamente con la rappresentazione degli elementi lessicali usati per designare persone». Per cui – ad esempio – dire essere umano è diverso da dire uomo, anche se grammaticalmente sono entrambi di genere maschile; allo stesso modo, sentendo o leggendo persona non pensiamo al femminile. Ciò che conta, insomma, è la percezione collettiva: perché la lingua è un fenomeno sociale, dunque soggetto ai cambiamenti del comune sentire. Oggi la Rai non censurerebbe certo la parola nudi come fece nel 1972 per Questo piccolo grande amore di Claudio Baglioni o, al contrario, il pubblico non tollererebbe la parola negro che negli anni Ottanta risuonava ancora in canzoni di Lucio Dalla o Gianna Nannini.
Difficile, allora, ignorare «gli esiti di ricerche di ambito psicolinguistico e neurolinguistico» dalle quali – ricorda Fusco – emerge «che il maschile non marcato è percepito come maschile e pertanto attiva una serie di stereotipi di genere». Di qui, la tendenza a rendere visibile il femminile tramite reduplicazioni senza dubbio onerose nello svolgimento del discorso (regendering: «i professori e le professoresse», «il/la sottoscritto/a») o a cercare soluzioni alternative (de-gendering: «il personale docente», «la cittadinanza»). Proposte più radicali di neutralizzazione del genere vengono da chi sostiene le esigenze di rappresentazione delle persone non binarie, la cui identità non si riconosce nella distinzione tra maschile e femminile. In questo caso l’obiettivo è proprio quello di annullare le marche grammaticali del genere ricorrendo a soluzioni come l’asterisco, la chiocciola, lo schwa, la u finale. Soluzioni che, come dimostra il saggio di Elena Sofia Safina nel volume curato da Pietrini, al di fuori di specifiche comunità sono utilizzate pochissimo anche in rete. Perché impossibili da applicare con coerenza in quanto strutturalmente incompatibili con la nostra lingua, come convengono Fusco («Non si può lasciare nell’ombra la struttura fonologica, morfologica, sintattica e pragmatica della nostra lingua») e Lombardi Vallauri («La lingua non può adattarsi a tutte le esigenze ideologiche nella stessa misura»).