La Lettura, 21 aprile 2024
Su Dungeons & Dragons
Frank Mentzer: il terzo uomo. Se Dungeons & Dragons, il primo e immortale gioco di ruolo, fu ideato mezzo secolo fa da Gary Gygax e Dave Arneson, fu Frank Mentzer a dar vita, nei primi anni Ottanta, ai boxed set con cui quasi tutti i giocatori scoprirono questa nuova forma di gioco destinata a fare la storia. Tutti i giocatori inclusi quelli italiani, a cui la Editrice Giochi fornì l’indimenticata «scatola rossa», il set «base», che copriva personaggi dal 1° al 3° livello, oltre a fornire i rudimenti necessari per giocare, a cui sarebbero seguite, con immutato successo, quella blu (set Expert, per personaggi dal 4° al 14° livello) e quella turchese (set Companion, dal 15° al 25° livello). Negli Stati Uniti esistevano altre due scatole: quella nera, il set Master, per personaggi dal 25° al 36° livello, e la bizzarra scatola oro, il set Immortal, che copriva lo sviluppo dei personaggi oltre il 36° livello, quando sarebbero diventati immortali olimpici, con regole tutte nuove. Anche questi set erano ideati e scritti da Frank Mentzer.
Ora che Gygax e Arneson, scomparsi nel 2008 e nel 2009, non ci sono più, è rimasto solo l’ultimo componente della «trinità ruolistica» a tenere alta la bandiera del primo gioco di ruolo, che nel frattempo sta vivendo una nuova primavera, riaffermandosi come sistema più giocato al mondo e arricchito da una pletora di produzioni indipendenti che lo supportano con ambientazioni e avventure. Mentzer gioca ancora e «la Lettura» l’ha intervistato in occasione del prossimo Comicon (Napoli, 25-28 aprile), dove presenterà un’avventura inedita per D&D intitolata Death in Wretched Swamp («La palude maledetta»).
Mentzer, sono passati cinquant’anni dall’invenzione di «Dungeons & Dragons» e 41 dalla sua «scatola rossa». Nonostante la pubblicazione di migliaia di diversi altri sistemi di regole, «D&D» è ancora quello più giocato. Qual è a suo avviso il segreto della sua longevità?
«Ovviamente arrivare per primi ha avuto la sua importanza: la prima generazione di giocatori di ruolo aveva a disposizione solo D&D, anche se molti di loro hanno fatto presto a inventarsi i loro sistemi: questo non ha solo portato a una grande diffusione, ma ha fatto anche sì che molti, dopo aver provato sistemi differenti, sentissero il desiderio di tornare a D&D. Ciò ha portato a sua volta alla creazione di nuove edizioni del gioco, che l’hanno mantenuto fresco nel tempo. Ma in fondo il punto è un altro: prima di Dungeons & Dragons, esistevano solo giochi in cui, dopo aver giocato, c’erano vincitori e vinti. D&D rese possibile un tipo di gioco in cui ci sono solo vincitori, perché l’obiettivo è creare tutti insieme una storia che funzioni. Questo non era mai stato fatto prima, e anche se tutti i giochi di ruolo arrivati dopo hanno portato avanti il medesimo approccio, il pubblico non ha dimenticato quale fu il gioco che cambiò per sempre il paradigma dell’intrattenimento».
Il suo «set base» portò «D&D» a milioni di giocatori in tutto il mondo. Che cosa rese possibile un impatto così vasto?
«La risposta è semplice: era la prima versione di un gioco di ruolo, nel frattempo ne erano già nati altri, che includesse istruzioni che insegnassero a giocare passo dopo passo. Oggi sembra ovvio, ma a quei tempi c’erano solo giochi che sembravano manuali di programmazione. Niente narrazione, niente esempi. Nulla. Parlavano a chi era già stato “iniziato”, ma si veniva iniziati solo di persona, da un amico che già sapeva come giocare. Il nostro “set base” era, se vogliamo, un “kit da auto-iniziazione”: permetteva anche al singolo di capire il gioco e lo metteva in condizione di trasmetterlo una volta che avesse convocato il gruppo… E così cominciarono milioni di storie incredibili. Credo poi che ci sia stata un’intuizione particolare che si è rivelata proficua. Nell’avventura guidata presente nel “set base”, il protagonista inconta una giovane chierica, Aleena, con cui fa amicizia e stabilisce un’alleanza. Ma non molto tempo dopo Aleena viene uccisa da Bargle, il cattivo che avevo inventato per l’occasione. Ecco, veder morire subito un alleato faceva capire che nel gioco si poteva morire: i personaggi potevano scomparire se avevano sfortuna o i loro giocatori sbagliavano qualcosa. Questo per me è un piano essenziale nei giochi di ruolo: se non c’è il rischio effettivo di morire, l’avventura diventa subito meno emozionante».
Ricorda qualche momento decisivo della creazione dei «boxed set»?
«Il punto di partenza era rendere il gioco chiaro ai novizi, così convocai tutto lo staff amministrativo della Tsr (la prima azienda produttrice di D&D, ndr) e testai su di loro avventure e storie introduttive. Era tutta gente in camicia bianca e cravattina, abituata a contare entrate e uscite, tra di loro nessuno giocava. L’idea era: se la capiscono loro, allora la capiscono proprio tutti. In base al loro feedback revisionai tutti i materiali. Poi, se vogliamo raccontarla tutta, chi faceva davvero un sacco di scelte era la divisione marketing: mica me l’avevano detto che avremmo tradotto tutti i materiali in venti lingue per puntare subito a una diffusione globale… Lo avessi saputo, magari avrei fatto alcune cose in modo diverso, ma in fondo tutto è andato bene, quindi ok. Ah, un’altra cosa: credo che anche gli artisti che hanno realizzato i disegni sulle scatole e nei manuali, su tutti Larry Elmore, abbiano avuto un ruolo importante nel successo dei boxed set».
Secondo lei il guerriero sulla copertina del «set base» come se l’è cavata poi con quel drago rosso?
(R ide) «Bisogna vedere se era davvero di livello compreso dal 1° al 3° come quello che illustra il “set base” o se era di livello più alto. Poi, se vogliamo dirla tutta, la prima versione del disegno di Elmore mostra un gruppo di avventurieri, com’è logico visto che D&D si gioca in gruppo. Ma Gygax e il dipartimento marketing pensarono che l’immagine sarebbe stata più efficace con un solo avventuriero contro il drago. Diciamo che se il ragazzo è solo, non ha troppe speranze, vista anche la distanza e i “tiri salvezza” dei guerrieri contro il soffio del drago. Se invece sono in gruppo, magari...».
Quali erano i punti di forza degli altri set? E soprattutto… Cosa voleva dirci esattamente l’«Immortal»?
«I set Expert e Companion hanno sempre funzionato bene. L’Expert in particolare era potente perché mostrava che fuori dal dungeon, dal sotterraneo dove si svolgevano le prime avventure (e dove comunque gli avventurieri sarebbero tornati, dato che si potevano inventare dungeon letali per personaggi di alto livello), c’era un mondo: città, montagne, boschi, regnanti, popolazioni… Il Companion, poi, ti mostrava cosa potevi fare con quel mondo: non solo avventure in stile quest (ricerca), ma anche scontri tra eserciti, politica di corte, insomma lo scenario da “micro” diventava “macro”. Il set Master ebbe forse un impatto minore perché al di là di portare i pg (personaggi giocanti, ndr) fino al 36° e ultimo livello, includeva elementi che non erano tanto per personaggi di così elevato potere, quanto regole accessorie utilizzabili a livello basso. L’Immortal… be’. È vero che è diverso e che ha avuto, diciamo, reazioni miste. Forse il problema fu che non includeva le classiche spiegazioni passo-passo, una scelta che dipese dal dipartimento marketing, e che probabilmente abbiamo pagato cara, visto che quel set includeva concetti abbastanza strambi, che andavano spiegati bene».
Com’era lavorare in quell’azienda, la Tsr, con Gygax e Arneson?
«Quando entrai nel 1980 c’erano meno di cinquanta dipendenti e si lavorava con tre macchine da scrivere nelle stanze spoglie di un hotel abbandonato. Ho detto tutto. Ma capivi subito di avere a che fare con gente geniale. Gygax era un grande ideatore di sistemi di gioco e un editore di talento; il suo metodo era prendere un’idea grezza, magari buttata là da altri, e lavorarla fino all’eccellenza: direi perfetto per il capo di un team che sviluppa giochi. La sua fissa erano le tabelle: voleva che qualunque cosa fosse determinata da regole precise. Dall’altro lato c’era Arneson, che invece era molto meno concentrato sulle regole: era un uomo di idee, più che un maniaco degli schemi, e badava più ad ambientazione, interpretazione dei personaggi e atmosfera del gioco. La combinazione delle due personalità, come ha dimostrato la storia, sarebbe stata esplosiva».
E lei che stile di gioco ha?
«Gygax mi definì “il Dungeon Master ideale”, ma era troppo gentile e poi ormai sono un Master al limite della pensione, chissà quanti ne sono venuti fuori più bravi di me in quarant’anni(il Dungeon Master è il giocatore incaricato della conduzione del gioco, che scrive l’ambientazione e interpreta i personaggi sullo sfondo, oltre a nemici e antagonisti, ndr). In ogni caso, per me la chiave della conduzione è concentrarsi sui personaggi giocanti: tu puoi scrivere la migliore ambientazione del mondo, i comprimari più interessanti, gli antagonisti più temibili, ma tutto ciò diventerà davvero entusiasmante solo se sei sempre pronto a indirizzare il gioco, e anche la stessa ambientazione, in base alle azioni dei giocatori. Se andando avanti c’è la sensazione che i personaggi giocanti hanno avuto un’effettiva influenza nel definire il mondo in cui si gioca, e che le loro scelte, e non quelle preliminari del Master, sono state l’elemento determinante del punto in cui si trova la storia, allora la storia sarà un successo».
Al Comicon vedremo per la prima volta la sua avventura «La palude maledetta»: che cosa dobbiamo aspettarci?
«Di morire!».