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 2024  aprile 21 Domenica calendario

Storia dei confini

Il mondo è segnato dalle frontiere e dai loro paradossi. Più crescono le protezioni, le difese, gli scudi (ora anche spaziali) più aumentano le migrazioni, i conflitti. Klaus Dodds, 54 anni, docente di Geopolitica alla Royal Holloway University di Londra, in Guerre di confine (in Italia pubblicato da Einaudi) ricostruisce il significato storico dei limiti territoriali, passando per gli scontri di oggi (Ucraina, Gaza) prima di immaginare quelli di domani, nello spazio e nelle profondità marine.
Professore, lei scrive che l’idea di fissare dei confini appartiene all’istinto più profondo dell’umanità. Le prime tracce di barriere risalgono a 12 mila anni fa. Poi dalle mura di Gerico si arriva fino allo scudo spaziale…
«Sì, mura e barriere attraversano gran parte della storia, soprattutto per due ragioni. La prima è la necessità di garantire sicurezza fisica alle comunità. La seconda ragione potremmo definirla “sicurezza ontologica” e cioè trasmettere anche la sensazione psicologica di essere protetti, al riparo. Ma c’è un altro elemento da considerare. Le opere di sicurezza rappresentano anche il punto di partenza per proiettare forza all’esterno. Così, per esempio, la frontiera tra Inghilterra e Galles è punteggiata da castelli che segnano la linea di separazione, ma che ostentano anche la forza delle armate inglesi».

Nel suo libro richiama le parole pronunciate da Ronald Reagan a Berlino, il 12 giugno 1987: «Signor Gorbaciov, abbatta questo Muro». Dopodiché gran parte del mondo ha beneficiato di oltre trent’anni di liberi commerci e viaggi praticamente senza vincoli. Quest’epoca è finita?
«Penso che quell’era all’insegna dell’ottimismo sia definitivamente terminata. È una svolta cominciata con la guerra al terrorismo. Con gli attentati dell’11 settembre 2001 è svanito il clima degli anni Novanta, la convinzione che il pianeta sarebbe stato sempre più omogeneo economicamente, politicamente e culturalmente. Ora abbiamo capito che il resto del mondo non vuole diventare come noi, come l’Occidente. È significativo notare come il simbolo stesso della globalizzazione aperta, il jet, sia stato scelto come arma per distruggere quel mondo. Vorrei anche ricordare che negli anni Novanta, internet era appena comparso. E si pensava che la Rete avrebbe consentito alle popolazioni di chiedere trasformazioni democratiche, di mettere in difficoltà le tirannie. Dopo l’11 settembre gli Stati, compresi gli Usa, hanno pensato che fosse necessario imporre regole più rigide alla sfera digitale e che i cittadini si sarebbero dovuti abituare a convivere con maggiore sorveglianza, non con meno».
Nello stesso tempo, però, stiamo assistendo a un paradosso: i confini si moltiplicano, ma le migrazioni non si fermano e sembrano sempre più difficili da controllare. È d’accordo?
«Certo. Il paradosso è che più sicurezza al confine, più guardie, più pattuglie non significano necessariamente lo stop all’immigrazione illegale. Sappiamo anche che i cambiamenti climatici renderanno inospitali diverse zone della Terra e inoltre che tra non molto gli abitanti totali saranno dieci miliardi: due miliardi in più rispetto a oggi. L’aumento della popolazione riguarderà soprattutto l’Africa, mentre Giappone, Corea del Sud e diversi Paesi europei invecchieranno ulteriormente. Sono proprio questi gli Stati che continueranno a proteggere i confini, pur avendo, in realtà, bisogno di migranti. A meno che i robot e l’Intelligenza artificiale non siano in grado di colmare la mancanza di manodopera».
Nel libro vengono esaminati diversi tipi di confine. Tra questi ci sono le «frontiere violate». Abbiamo diversi casi davanti agli occhi: la Russia ha violato il territorio dell’Ucraina; Hamas quello di Israele; Israele quello dell’Iran e viceversa. Quali lezioni possiamo trarne?
«L’invasione russa costituisce una netta violazione del diritto internazionale e dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Eppure abbiamo visto che molti Paesi non hanno condannato pubblicamente la Russia, altri si sono mostrati agnostici. Anche nello scontro tra Israele e Iran si è verificata una doppia violazione del diritto internazionale. Mi sembra questo il dato più rilevante: la legalità mondiale è come se fosse evaporata. La costruzione fondata sulla Carta dell’Onu non è più adeguata alla nostra epoca».
Una considerazione che vale anche per il conflitto di Gaza?
«È una vicenda difficile da gestire per gli americani e gli europei. Certo, dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre, Israele ha il diritto di difendersi. Però i sostenitori del governo israeliano negli Usa e nell’Unione Europea sono rimasti invischiati in una specie di “ginnastica dei confini” per tentare di spiegare perché Israele fosse legittimato a entrare nella Striscia di Gaza e a infliggere un costo così pesante alla popolazione civile».

Dobbiamo, quindi, accettare l’idea che la violenza e la sopraffazione siano la nuova normalità?
«Sì, credo che questo sia the new normal. Purtroppo stiamo andando incontro a un’epoca segnata da sempre più scontri di confine. E ancora una volta dobbiamo sottolineare un paradosso. Prendiamo il caso di Israele e Palestina. Le due comunità vogliono fare affidamento su confini sicuri. Per gli israeliani ciò significa protezione; per i palestinesi vedersi riconoscere uno spazio indipendente. Ebbene, una politica basata sui confini non è in grado di soddisfare queste richieste, perché alla lunga non riesce a fermare nè i migranti nè i razzi. Nello stesso tempo va riconosciuto che è difficile immaginare delle alternative».
Eppure nel mondo sembra resistere un’organizzazione come l’Unione Europea, che è fondata sul concetto di uno spazio aperto, senza confini. È un modello che può sopravvivere?
«È una questione davvero interessante. La capacità dell’Unione Europea di mantenere uno spazio aperto è messa duramente alla prova da una serie di sfide importanti. Abbiamo già visto che i Paesi membri hanno scelto approcci diversi, con chiusure più o meno rigide, per fronteggiare la pandemia. Notiamo anche che ci sono fratture sempre più vistose tra Stati disponibili a investire sulla sicurezza dei confini, sulla difesa, e altri più riluttanti. Poi bisogna tenere in conto le politiche sulle migrazioni, sui cambiamenti climatici che possono essere diverse, Stato per Stato. Insomma non darei per scontato che il modello di spazio aperto europeo possa rimanere intatto».
I nuovi possibili ambiti di scontro saranno gli oceani e lo spazio. Anche lì ci sarà il rischio delle guerre di confine?
«Mi aspetto due cose. Primo: anche in questo caso manca una cornice di diritto internazionale adeguata. Le regole che disciplinano le attività nello spazio hanno tra i 40 e i 60 anni, quando c’erano solo due superpotenze in campo. Oggi ne abbiamo diverse, a cominciare da Cina e India. Lo stesso discorso vale per le profondità degli oceani. Secondo: l’ambiente subacqueo e quello spaziale stanno diventando sempre più attraenti per la ricerca di materie prime. Non ci sarà solo la concorrenza tra Stati. Elon Musk non è l’unica persona a immaginare un futuro dell’umanità in altri pianeti. Dobbiamo prepararci a tutto ciò e anche accettare l’ipotesi che questa corsa avverrà senza regole condivise, con il rischio, quindi, di altri conflitti».