La Lettura, 21 aprile 2024
Appunti dall’incontro di Gorbaciov e De Mita: la concorrenza tra Urss e Usa per il controllo dell’Europa
«Per l’Europa devono pesare le tradizioni, la cultura, le esperienze tecnico-scientifiche: tutto quello che ci dà la concreta possibilità di costruire la casa comune europea». Rilette a distanza di trentasei anni, con l’aggressione all’Ucraina e le minacce nucleari che arrivano da Vladimir Putin e dalla sua cerchia di oligarchi, queste parole provocano un’eco lunare. Perché a pronunciarle è un leader russo, anzi l’ultimo capo dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov. E trasmettono la sensazione amara di un’occasione perduta; di una regressione dei rapporti internazionali nella quale oggi le responsabilità russe sono evidenti, ma i malintesi e le diffidenze che le hanno fatte lievitare inducono a riflettere su errori e scarti meno unilaterali.
Queste frasi di Gorbaciov emergono dal resoconto del colloquio avvenuto a Mosca il 14 ottobre del 1988 con l’allora presidente del Consiglio italiano, Ciriaco De Mita, democristiano. Sono ventuno fogli di appunti a penna, scritti su un bloc notes con il frontespizio di cuoio blu sul quale è inciso a caratteri cirillici dorati il termine «Moskva»: quello distribuito dal Cremlino agli ospiti per prendere appunti.
L’autore è Andrea Manzella, allora segretario generale di Palazzo Chigi, unico presente di parte italiana col premier e l’interprete alla prima fase dell’incontro immortalato sulla prima pagina della «Pravda», l’organo del Pcus, il Partito comunista dell’Unione Sovietica. In un secondo momento, entrarono anche i ministri degli Esteri dei due Paesi. E l’aspetto che più colpisce, nelle note di questo costituzionalista e docente universitario che in seguito ha occupato lo scranno di parlamentare europeo e di senatore dell’Ulivo, è l’atmosfera di ottimismo: ottimismo soprattutto del capo sovietico sulle possibilità del disarmo e della distensione. Si respira la fiducia in una prospettiva di dialogo con l’Europa, quasi che l’Urss della perestrojka, del rinnovamento gorbacioviano, fosse destinata a diventare un catalizzatore dell’unità del Vecchio Continente con una «madre Russia» pacificata, avviata in modo irreversibile verso la democrazia.
D’altronde, il Muro di Berlino sarebbe caduto poco più di un anno dopo. La Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa si sarebbe conclusa nel 1990 con la «Carta di Parigi per una nuova Europa», sottoscritta anche da Usa e Urss. «Fu il culmine delle illusioni sulla fine della guerra fredda», ricorda Manzella.
Ma in Occidente la metamorfosi sovietica era osservata con un misto di speranza e diffidenza. Soprattutto negli Stati Uniti, Gorbaciov era visto come un leader che rischiava di allontanare l’Europa dall’America. «Negli Usa», disse Gorbaciov nel resoconto del professor Manzella, «molte forze politiche guardano con sospetto a questo processo europeo. Ho letto Kissinger su “Newsweek”: parla del tentativo di Gorbaciov di cacciare gli Stati Uniti dall’Europa. Ma sono proprio Nixon e Kissinger a fare il ragionamento opposto: quando essi parlano di un’Europa dalla Polonia all’Atlantico, sono loro che vogliono cacciare l’Urss dall’Europa! È un’operazione di disinformazione colossale... Dobbiamo cercare di creare le condizioni comuni per la casa comune europea».
Ripetè più di una volta l’espressione «casa comune europea»; e come un potenziale membro, quasi un cofondatore. Allo stesso modo usò più volte la parola «ricostruzione morale» legata all’Unione Sovietica, e «distruzione della morale e deformazione del livello etico della società» a proposito dei danni provocati dal comunismo staliniano. Sembrano parole ricavate da un trattato di archeologia politica. L’America del 1988 accusata di disinformazione, messa a confronto con la Russia putiniana del 2024 che della disinformazione ha fatto, più di altri, un’arte e un’arma inquietante. In quel momento, era chiaro che un’Urss quasi alle corde insisteva sulla distensione. Cercava un compromesso con Usa e Ue. E chiedeva quasi disperatamente di superare i pregiudizi, i sospetti, tentando di rassicurare sul percorso delle riforme.
È probabile che Gorbaciov si rendesse conto che, senza una sponda occidentale non viziata da un approccio egemonico, anche i suoi problemi interni si sarebbero accentuati. «Quando mi incontrai con Ronald Reagan», l’allora presidente degli Stati Uniti, si legge negli appunti che riferiscono le parole di Gorbaciov, «gli dissi: possiamo cominciare un dialogo a patto che lei non si consideri vincitore e non consideri me un vinto; lei non è il pubblico ministero e io non sono l’imputato. Gli Stati Uniti devono comprendere che, nei rapporti internazionali, la loro potenza significa responsabilità...». Era preoccupato dalla dislocazione degli aerei F16 della Nato in Italia in funzione antisovietica. «Non si è trattato di un atto di riarmo ma solo di uno spostamento di base», si sforzò di rassicurarlo De Mita. «Ma un po’ più vicina a noi!», obiettò Gorbaciov al capo del governo italiano. «Lo squilibrio è disuguale. Con Reagan ho dovuto parlare per quattro ore su questo punto».
Sembra di cogliere, in filigrana, quel riflesso imperiale frustrato che nel futuro avrebbe alimentato l’ascesa di Putin; quel senso di accerchiamento progressivo da parte dell’Alleanza atlantica che sta producendo gli ultimi frutti rancidi contro Ucraina e Occidente. Gorbaciov sapeva di essere a capo di uno Stato fallito, di fatto: economicamente, ma anche moralmente. Quanto disse a De Mita sotto questo punto di vista è rivelatore. «L’attuale dirigenza sovietica ha dovuto esaminare attentamente la società reale... Guardando onestamente, si è arrivati ad una spietata analisi politica ed economica. Ed ecco l’idea di ricostruzione della nostra società: cominciando dall’uomo, da una valutazione più umana della nostra gestione economica». Ma, aggiungeva Gorbaciov, «non si può fare se non ricostruendo la politica». E ancora: «La società deve essere ricostruita moralmente».
Aveva, o comunque mostrava di avere, una fiducia quasi fideistica nel cambiamento avviato. «Ora la scelta fatta è senza ritorno. Certo, si possono avanzare critiche e apportare correttivi: ma nessuno può modificare in tempo reale la scelta fatta», assicurava il capo sovietico. «Diamo al popolo la possibilità di controlli e di garanzia. La perestrojka è fatta di processi contraddittori: ma va avanti e può essere sicuro che si realizzerà in due, tre anni. Non è un lavoro di cosmetica, di lavori di superficie. La perestrojka va nel profondo della società».
Ma esistevano resistenze diffuse, «tentativi di frenare», e Gorbaciov li vedeva e li ammetteva. «Non è vero, però, che sono i burocrati a frenare», precisava in modo un po’ sorprendente. «Cercano di frenare tutti i ceti dove si è annidato il conservatorismo (ad esempio tra i contadini). Molti organi dello Stato si trovano di colpo senza funzioni e tutto diventa difficile. È questa mentalità che con la perestrojka deve finire...».
Era una scommessa, di più, una sfida che «abbiamo cercato di seguire anche in politica estera», spiegava il leader dell’Urss a De Mita e, tramite lui, all’intero Occidente. E non nascondeva che già si intravedevano le incognite. «All’inizio, tutte le nostre iniziative sono state accolte con scetticismo... Qualcuno ora ha tirato fuori addirittura il paragone con Gesù Cristo», e non certo come complimento: era il sarcasmo riservato a un uomo accusato di essere un visionario velleitario. Eppure, insisteva su un «nuovo metodo» basato sulla «coesistenza pacifica... Noi siamo tutti diversi ma costituiamo le varie parti della stessa civiltà. Il mondo si è fatto sempre più interdipendente nella sua complessità: e ogni differenza deve essere sfruttata per creare condizioni di scambio e non di confronto militare: di arricchimento, non di impoverimento».
Di nuovo riaffiorava uno sguardo privilegiato verso l’Europa, «il punto fondamentale». «Nelle nostre iniziative», spiegava a De Mita, «c’è di tutto: le armi nucleari Usa-Urss; le armi nucleari europee; le armi convenzionali; le armi chimiche. Vorrei che si ricordasse: in qualsiasi nostra proposta sono sempre presenti gli interessi europei. Non vogliamo che gli europei sospettino di noi. Si tratta di un anacronismo che vogliamo collaborare a dissipare».
Gorbaciov è morto a Mosca il 30 agosto del 2022, poco amato in patria proprio per avere archiviato l’Urss e tentato un rinnovamento contro il quale la Russia profonda si è ribellata. Quando è scomparso, erano passati sei mesi dall’aggressione militare di Putin all’Ucraina, il 24 febbraio di quell’anno: un atto di guerra contro la voglia di Europa di Kiev, che non può non far riflettere sull’involuzione seguita a quel colloquio dell’ormai remoto 1988. Probabilmente per responsabilità non solo della Russia gorbacioviana, oggi sepolta dai carri armati e dai missili di una deriva antioccidentale.