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 2024  aprile 26 Venerdì calendario

Dentro la matrioska del Novecento


Evasioni, di Diego Gabutti (Milieu edizioni, pagg. 239, euro 17,90) è una sorta di libro-matrioska; non fai in tempo ad aprirlo che subito ne salta fuori una prima e poi una seconda e così all’infinito. Il sottotitolo Spillane, Adorno, Cocco Bill e altre torte con la lima le riassume, ma non le esaurisce, nel senso che di torte e di lime c’è un grande spolvero e un grande sciupio, come se intrapresa un’evasione, intellettuale, va da sé, Gabutti l’abbandonasse a metà percorso perché sedotto da un altro tunnel, un altro lenzuolo da annodare, un altro grimaldello di fortuna da metter alla prova... Dai gialli alla fantascienza, dai fumetti alla filosofia, dal romanzo alla saggistica, non c’è universo letterario che Gabutti non abbia esplorato e allo stesso tempo scardinato: gli universi chiusi non fanno per lui, carcerari, appunto, e un solo mondo, una sola dimensione, così come una sola vita, non gli bastano... Del resto, la letteratura è proprio la moltiplicazione dei mondi possibili e immaginabili...
Evasioni è anche una sorta di autobiografia sentimentale o, se si vuole, una educazione intellettuale, per quanto un torinese si possa lasciare andare alle madeleines proustiane dei ricordi. Ne viene fuori che intorno ai vent’anni, quando si sa che tutti gli eroi sono giovani e belli, anche Gabutti abbia civettato con la contestazione, la sovversione, il marxismo e il marxismo-leninismo, qualche avanguardia proletaria, qualche avanguardia operaia... Che cosa lo attirasse, oltre alla legittima curiosità, è difficile dire, anche se essendo un appassionato di fantascienza fin da ragazzino ci doveva essere in lui una predisposizione per il freak, il grottesco e insieme il mostruoso, lo scherzo di natura e gli universi paralleli. Non è durata tanto, poco meno di un decennio, il tempo necessario per vaccinarlo contro ogni idea di Storia progressiva, di materialismo storico e di coscienza di classe, la propria come quella degli altri. Ebbe termine il giorno del sequestro Moro, un tiepido pomeriggio di marzo da lui trascorso nella sede milanese di un circolo editoriale di sinistra. «C’erano Nanni Balestrini e altri gabibbi – forse Elvio Facchinelli, forse Oreste del Buono – e tutti schiamazzavano a festeggiare la bell’impresa, ma che bravi questi pistoleros qua, minchia che efficienza, che coraggio e che geometrica potenza. Tirava una brutta aria. Fu allora che decisi di leggere l’Arcipelago Gulag e di cambiar cavallo».
Quello che da allora ne ha preso il posto è una curiosa figura di libertario capitalista, saldamente legato ad alcuni valori occidentali, quali la libertà d’impresa come la libertà di stampa e di opinione, senza pregiudizi e senza moralismi applicati alle prassi politiche così come alle idee, quel moralismo che, parafrasando il detto del dottor Johnson a proposito del nazionalismo, resta «l’ultimo rifugio delle canaglie».
Se mi è concessa una battuta, quella derapata gauchiste di Gabutti mi fa venire in mente l’ironico rimprovero che Leo Longanesi riservò a Giovanni Ansaldo: «Badi, che lei s’è salvato per miracolo, all’ultimo momento dall’essere stato il solito antifascista fesso! Da giovane aveva preso una brutta strada!».
A lungo collaboratore del Giornale montanelliano, Gabutti ci lascia in Evasioni un bel ritratto del Montanelli raccontatore: «Nessuno raccontava la storia come la raccontava lui. Fabula, niente insulsaggini. Ascoltavi Montanelli ed era come leggere romanzi. Una volta Stephen King, un’altra Mickey Spillane»... Resta tuttavia critico il suo giudizio su Montanelli e il fascismo, ovvero il fascismo visto e raccontato da Montanelli, «ridotto a varieté, tutto telefoni bianchi, bétises staraciane e Wanda Osiris». C’è del vero, ma se si dà uno sguardo spassionato ai totalitarismi del Novecento ci si rende conto che quello che Salvador Dalí chiamò nel suo dipinto L’enigma di Guglielmo Tell, una figura inginocchiata col pizzo bolscevico di Lenin e le chiappe scoperte, aveva «la faccia di Lenin e il culo di Hitler», ma non prevedeva il mascellone del Duce. Con tutti i suoi errori e i suoi orrori, il totalitarismo fascista restava distante anni luce dalla paranoia criminale lì dispiegata. E per molti versi, la nostalgia del comunismo, ovvero del totalitarismo uscito vincente, ovvero la sua mitologia, è strettamente collegata al sangue in suo nome versato, l’aggrapparsi sempre e comunque all’idea che fosse un sangue benedetto, salvifico e redento, senza il quale ciò che restava sul terreno era un puro e semplice mattatoio umano. Ironicamente, Gabutti osserva che se quella nostalgia è comprensibile, resta un mistero «la nostalgia per il Pc italiano». Lì dove c’erano i rivoluzionari di professione della Condizione umana di Malraux, qui c’erano «le rime di Rodari, i tortellini, lo stand dell’Ungheria, i cantautori, Nanni Moretti in motoretta, uno che non allungherebbe un cucchiaino di nutella a un affamato. Non c’è gara fra la rivoluzione e il ceto medio riflessivo...».
Io non so se Gabutti abbia letto «tutti i libri», come diceva quel verso di Mallarmé, ma senz’altro ci è andato molto vicino e se uno volesse potrebbe prendere queste Evasioni come un indice della letteratura universale e passare da un nome all’altro, senza soluzione di continuità. Non a caso, e fra l’altro, ci sono nel libro camei su Guareschi, Bordiga e Jacovitti, per restare in Italia, su Orwell, Borges, Dostoevskij, Solzenicyn, Malraux, Kerouac, Dickens, per fare un po’ il giro del mondo. Perché poi una delle caratteristiche di Evasioni e del suo autore è ciò che spiega molto bene Roberto Barbolini nella postfazione, una vera e propria introduzione all’immaginario gabuttiano: «Una miriade di connessioni velocissime, una diaspora di intuizioni, congetture, iper-ipotesi tanto romanzesche quanto intellettualmente affascinanti, mescolando l’infantile gioia enciclopedica del catalogo all’assoluta libertà vagabonda di chi s’imbarca con Rimbaud sul Bateau Ivre e bordeggia con Debord fra miti e riti d’una civiltà al crepuscolo, senza risparmiare sarcasmi e ironie imposte da uno sguardo critico di ludica ma impietosa lucidità».
«È per dare respiro alle proprie alienazioni, e per visitare altri mondi, che si leggono libri» dice Gabutti e non gli si può dare torto, anche se si finisce poi spesso per tornare al tempo che ci è stato dato in sorte e che, per quanto «secolo breve», contiene tante di quelle storie e alienazioni, per conto proprio e in conto terzi, che si rischia di farne indigestione. Sotto questo aspetto, Gabutti è un classico prodotto del Novecento, oltretutto senza nessun birignao antimoderno, reazionario o passatista che sia. È proprio per questo che ha ben chiaro che ciò che conta è vaccinarsi contro «le idee pericolose» o meglio, «una specifica idea» pericolosa, proprio quella del resto che è «il gran concerto del Novecento, per metà Marx, per metà Rimbaud, e per intero una religione rovinosa: cambiare il mondo, cambiare la vita». È infatti l’età delle rivoluzioni, come ha ben spiegato Isaiah Berlin, a essere la «testimone d’una nuova forma di sacrificio umano, l’immolazione di esseri umani concreti, vivi, corporei, sugli altari delle astrazioni: Nazione e Chiesa, Partito e Classe, Progresso, le implacabili Forze della Storia». Esaltazione delle idee e reificazione delle singole esistenze umane convertite da persone in oggetti, sono lo Zeitgeist, lo spirito del Novecento, che Gabutti definisce «un sinistro millenarismo religioso, la convinzione cioè che la società perfetta fosse a portata di mano, purché la mano non tremasse...».
Come Berlin, anche Gabutti per un momento si è illuso che la fine, in tutti i sensi, del «secolo breve» portasse con sé se non la cosiddetta «fine della storia» almeno «un tempo migliore per l’umanità». E tuttavia, oltre che da «nuove idee pericolose» il XXI secolo deve guardarsi dall’«ottimismo illuminato» e dal «realismo radicale», anch’esse idee azzardate. In Evasioni c’è dunque anche il catalogo ragionato delle utopie tragiche e degli orrori novecenteschi, rivisitati però con il disincanto di chi sa che l’indignazione come l’impegno hanno sempre un suono falso nel loro essere a senso unico, in nome di una causa che sempre esclude e condanna le cause altrui... Non per nulla Gabutti è un lettore appassionato di Wodehouse, dove nessuno si prende e/o è preso sul serio, ma «un tempio del buonumore» dove rifugiarsi quando il presente si fa troppo minaccioso e sempre più c’è qualcuno che vuole rieducarci per il nostro bene.